en mémoire de
Gérard de Nerval
Ténébreux, Inconsolé, Visionnaire
L’enigma dell’ora
di
Andrea Pagani
Ci
misi poco a cambiare idea.
Bastò,
probabilmente, la vista, all’orizzonte, del profilo ambiguo e inafferrabile del
castello.
Il
vapore denso, lattescente della nebbia.
La
sera era grigia e trasognata, come lo stato d’animo che mi visitava, una via di
mezzo fra la malinconia e una strana improbabile apprensione.
Per
questo avevo scelto, contrariamente ad ogni previsione, di uscire, di gettarmi
nella serata brumosa, di fare una passeggiata in mezzo alla foschia.
Il corso era deserto, i ciottoli scivolosi d’umidità.
La
nebbia avvolgeva ogni cosa.
Una
caligine grigia conferiva all’atmosfera un senso d’incredulo smarrimento.
Le
torri del castello sbucavano fuori dalle coltri di nebbia come gli alberi di
prua e di poppa di un antico veliero rinascimentale, dove la guardia dei leoni
era il gonfio ed eretto pennone.
Mi tirai su il bavero del cappotto.
Fui
visitato da un brivido di freddo, lungo la schiena, e orientandomi a fatica,
guidato dall’istinto, mi diressi verso l’entrata di un palazzo.
Superai
la soglia, lasciando dietro di me il viluppo incongruo delle incertezze.
Mi
agitava un umore sommesso, che sembrava appartenere ad un mondo arcaico, primitivo,
avvolto in un’altra nebbia, quella della memoria.
E
solo scivolando con fiduciosa remissività in quella zona del mio cuore avrei
portato alla superficie l’essenza del segreto sommerso.
Al
bancone d’ingresso un distinto signore, in impeccabile livrea nera, dall’aria
stanca e cerea, mi staccò un biglietto senza proferire parola.
M’affrettai
a sistemare il cellulare in modalità vibrazione.
Immerso
in un favoloso silenzio, mi accinsi a visitare la mostra.
C’era
qualcosa di magico e religioso nell’esperienza che stavo compiendo: lo avvertii
nitidamente fin dalla prima sala, quando la serie di dipinti, con le loro tinte
precise, coi loro colori vivi e corposi, mi comunicò una specie di ebbrezza, un
autentico capogiro.
Affiorava
da subito la fedeltà descrittiva del tratto pittorico, l’esattezza dei profili,
soprattutto nel definire i particolari, eppure calati in un contesto
improbabile: un guanto di pelle inchiodato su una stravagante parete di legno;
rocchetti di filo dalle seriche lucentezze in bilico, in incerti ambigui
equilibri su un ripiano; una spola di lana bianca appoggiata su una scala verde...
e profili indiscreti e sfuggenti, sbilenchi, del castello rosso, con quelle
torri erette e quelle verticali vertiginose che s’intrufolavano, di soppiatto,
attraverso un angolo della finestra... e poi ancora manichini anonimi, senza
volto e senza arti, solitari, disumanizzati, gravidi di un angoscioso mistero.
Attraversavo
le sale come sospeso da terra, librato in aria, irretito da un vago
presentimento.
Qualcosa di definitivo stava per accadere.