A Imola, come ancora in tanti comuni della mia provincia, esiste l’abitudine di attaccare in più punti della città manifesti listati a lutto, contenenti i necrologi delle persone scomparse.
E’ il cifrario accorato e partecipe delle piccole comunità, in cui tutti si conoscono e in cui la morte di ognuno è ancora una notizia importante e di interesse generale, oltre che l’ultimo spunto narrativo e quasi fiabesco per quella cordiale tessitura di voci, aneddoti, sentimenti che da sempre unisce e coinvolge i luoghi in cui gli anziani prevalgono numericamente su tutti gli altri.
A Imola in genere si muore vecchi, o molto vecchi. In genere muoiono prima i vedovi delle vedove. In genere i vedovi erano già morti prima di morire, perché da vivi li vedevi aggirarsi spauriti e stonati appoggiati a un bastone o lucertolati ad un muro, come ossi di seppia tralasciati sulla riva dalla risacca della vita. Le vedove, invece, in vita emanavano ancora una specie di splendore soddisfatto, di energia tragica, che mai le distraeva un attimo da tutto quel che restava da dire e da fare, e che oggi trapassa persino nelle espressioni lucenti della loro ultima fotografia. Che è già lì a preannunciare una morte indaffarata, e lo sbarazzino sgambettio della defunta persino di là, a rassettare le stanze del nulla.
Sotto il nome del morto è riportato a volte il suo soprannome, quello con cui tutti lo chiamavano in vita e che deve servire a identificarlo immediatamente senza altri sforzi di memoria. Spesso sono soprannomi dialettali, sincopati, tronchi; a volte diminuiscono il nome proprio, a volte lo vezzeggiano, altre volte ancora lo sfotticchiano delicatamente.
In altri casi invece, anche a girarlo e a ribaltarlo in mille modi il soprannome non svela nulla del nome di battesimo e addirittura è a sua volta un altro nome completamente diverso. E in quella piccola impostura onomastica pare allora di ritrovare quegli antichi codici segreti dei gruppi ristretti dentro i gruppi più larghi in cui si scappava via dall’autorità delle famiglie, delle scuole, degli eserciti, e si provava a rifondare se stessi dentro un’identità nuova e autentica, apparentemente conosciuta solo dai propri compagni di congiura e custodita solo da loro.
A Imola, a quanto si legge sui manifesti, i funerali religiosi sono ancora più numerosi di quelli civili. A volte le celebrazioni sono annunciate in modo franco, lineare, come sigillo inappuntabile di una vita di fede e devozione: e in quei casi il nome della chiesa, le modalità della benedizione sono snocciolati dai parenti con orgogliosa fierezza e, oserei dire, con un filo di vanità.
Altre volte, soprattutto per quelli degli uomini, e soprattutto per quelli di cui si intuiscono passati anarchici, socialisti, anticlericali, la notizia del transito in chiesa della salma è data in modo imbarazzato, quasi stupefatto: questa volta il prete diventa l’intermezzo clandestino tra la sosta iniziale nella camera mortuaria per il commiato civile dal defunto e quella conclusiva al cimitero, per la sua cremazione. Lenin diceva che la religione, nella vita degli uomini, è un’acquavite spirituale. Per gli uomini imolesi verrebbe da dire che la religione diventa tale soltanto in morte, e con lei si brinda insieme agli altri sulla propria tomba, scommettendo per l'ultima volta di potere ubriacare persino Dio.
A Imola muoiono qualche volta i quarantenni, i ragazzi giovani, persino i bambini. Ne danno l’annuncio messaggi dolci e sobri che sembrano infilati in mezzo agli altri quasi per sbaglio o per un refuso grammaticale del destino, ma che subito li sovrastano e li annullano e li attirano a sé dentro un vortice di tristezza.
Mai come in quel caso il necrologio è allora la coreografia letterale di uno scandalo: la lista infinita dei congiunti, tutti più vecchi di colui che si saluta; il numero striminzito dell’età del defunto, che ingrandisce agli occhi ogni volta che lo riguardi per capacitarti di quel che leggi; la sproporzione infinita tra l’entità di un dramma incomprensibile e la povera e inutile compostezza con cui chi resta convoca gli altri all’ultimo saluto a messa. A chiedere ragione di cosa ? E perché ? E soprattutto, a Chi ? "Signore, avvicina a noi questo calice, perché questa è la Tua volontà, e non la nostra". Acquavite spirituale, come si diceva.