martedì 31 ottobre 2017

Non cercavo che te

Ho stazionato in paludi di melma
e ho supplicato il vento
perché asciugasse il fango
Non cercavo che te...
Mi sono rotolata
abbracciata alle cicale in canto
aspettando che pronunciassero il tuo nome
Ho strappato le vesti dei passanti
Sperando che ti fossi nascosto in uno di loro
Ho visto morire un giorno
poi un altro ancora
Non cercavo che te...
Divino essere
...tu eri già in me
Maggie


giovedì 26 ottobre 2017

La Religione del Sapere

Dante e le tre fiere
Fonte foto QUI

Dino si ritrova nel suo paese. Esce di casa, è una tranquilla giornata di primavera. La vita scorre tranquilla nella piazzetta di fronte alla sua abitazione. Percorre le vie del paese, saluta alcuni conoscenti, fin quando non ne incontra uno particolarmente di fretta. “Giovanni! Dove vai così spedito?” “Dino! Che piacere rivederti! Sto andando alla messa delle 17, tra poco finiranno i posti in prima fila!” Dino non ricorda il suo amico come particolarmente religioso, anzi egli è solito definirsi addirittura agnostico. Insieme all’amico Giovanni, vede altre persone dirigersi con la stessa fretta verso la chiesa del paese, così incuriosito decide di seguire questo flusso di uomini, donne, bambini, ragazzi e ragazze diretti tutti verso la stessa meta. Giunto alla chiesa scopre un’intera folla circondare l’entrata, e pian piano prender posto all’interno dell’edificio, che seppur non sia piccolissimo fatica a trattenere quella massa di persone così coinvolte. Dino si intrufola nelle ultime file, accontentandosi di seguire la funzione in piedi. Dopo qualche minuto il brusìo cala, ed un modesto corteo fa la sua entrata dall’ingresso principale. Dino è subito colpito dal vestito bizzarro del parroco: assomiglia molto ad una toga accademica, bordata dal pelo di quello che sembra ermellino, e ricamata da dettagli dorati. Inoltre un cappello squadrato ed un vistoso medaglione argenteo completano il corredo di quello che non sembra affatto un funzionario ecclesiastico. Egli è accompagnato da altri uomini vestiti sempre con una lunga toga e pelo d’ermellino, ma senza calzare nessun copricapo e sprovvisti di medaglione argentato. Ognuno porta con sé diversi tomi tra le mani, almeno tre o quattro ciascuno. Infine Dino nota che tutti i protagonisti del corteo hanno cucito sulle toghe uno spesso bordo bianco. Arrivati all’altare, i funzionari si dividono disponendosi simmetricamente rispetto all’uomo con medaglione e copricapo, che tutti ora fissano attentamente. Il silenzio è interrotto soltanto dal debole fruscio proveniente dalle pagine dei volumi che gli uomini del corteo stanno meticolosamente disponendo sull’altare, e uno dopo l’altro, trovata la pagina esatta, si accomodano su eleganti sedute di marmo. L’uomo chiave, rimasto in piedi al centro dell’altare, prende ora la parola avviando un discorso solenne incentrato su un tema particolare: il sapere. “Che cosa bizzarra!” pensa Dino.

mercoledì 18 ottobre 2017

"Georges Simenon"

Georges Simenon
Un'altra cosa che uno non dovrebbe mai perdersi nella vita è il tepore gelido dei romanzi di Georges Simenon. Maigret certamente, ma prima ancora tutti gli altri. "La camera azzurra", "La finestra di fronte", "L'uomo che guardava passare i treni", "Faubourg". Simenon è un romanziere molecolare, che procede per sottrazione ed essiccazione, e dunque è difficile definire la vastità di un vetrino al microscopio. Si può dire innanzitutto cosa Simenon non è. Non è uno scrittore sociale, perché gli interessano poco i processi storici e le procedure di classe. Non è un ingegnere delle trame sconvolgenti a svelamento finale, perché i suoi gialli hanno talora soluzioni stanche, deludenti, e spesso un colpevole annunciato che non mancherà le attese. Non è un mestierante furbo delle tessiture sanguinolente o dei compiacimenti sessuali, perché nelle sue fabulae tutto scorre asettico, essenziale, cechoviano. Ma nel suo genere è forse il più grande narratore del Novecento. La sua prosa dondola come un'abitudine e ticchetta come un meccanismo a orologeria che la dilanierà. I suoi personaggi, sempre uguali nei sobborghi parigini o a Tangeri, alla fermata dell'autobus o su una nave in rotta per New York, sono spettri dolenti che anelano alla carnalità, o viziosi concupiscenti che preparano con meticolosa lena la propria dissoluzione. I dialoghi hanno la frenesia asciutta di un'opera di Beckett, le descrizioni d'ambiente sono sinestesie permanenti: odori colorati, musiche che rovistano, arredi che suonano il motivo dell'infanzia perduta, o della prigione eterna della famiglia, della casa, della provincia. Ho provato a leggerlo a volte in francese, e l'effetto è identico, nonostante quella lingua sia a volte tronfia, dispersiva. Tutto anche lì cigola, allude, procede per stillicidio e sgocciolamento all'alluvione finale. Poi certo, c'è Maigret. Il rapporto con la moglie, in cui ironia e complicità riscattano la stanchezza della carne. Le sue scorribande, lui uomo senza patente, a cavallo di taxi, di tram, di pattuglie trainate da sovrintendenti premurosi, come un principe rinascimentale che mal si attaglia alle autogestioni motorizzate della modernità. Dove lo scioglimento dell'enigma avviene alle volte un po' così, in modo forzato e svogliato, perché tutto il bello della storia era già scorso altrove: la pipa, il cognac, l'agguato d'acqua della Senna, i viali alberati dietro ai quali si nasconde il bandito lesto della malinconia, canaglia inafferrabile anche per i principi rinascimentali con un certo talento.

Michele Castellari

domenica 15 ottobre 2017

Fallo.

Fallo.

Indossa quel vestito troppo stretto.
Sciogli i capelli.
Alzati e balla.
Trova ragioni per ridere.
Fai l’amore.
Crea qualcosa di bello.
Parla.
Riconosci il tuo valore.
Non scusarti più per la tua magia
e smetti di nascondere la tua luce.
Amati.
Perdonati.
Fai spazio all’imprevisto.
Smetti di aspettare il momento giusto, fallo ora.
Ignora quello che la gente pensa di te.
Perchè alla fine sarai tu a dover rispondere per tutte le cose che non hai detto,
le persone che non hai amato,
le cose che non hai fatto
ed i luoghi dove non sei andato.
Fallo, adesso.





giovedì 12 ottobre 2017

WWW

Start
arresta il sistema
riavvia il sistema

vorrei riavviare
il sistema

ma forse meglio
che s’arresti.

Per sempre.


(Padre Nobile) 

mercoledì 11 ottobre 2017

Gli attori inconsapevoli (di Yari Mezzetti)

Kim Rossi Stuart a teatro
“Quando ci faranno entrare?” domanda in una nuvola di vapore una signora, alzando lo sguardo verso l’immensa sagoma muta e nera del teatro, imponente e solenne in mezzo agli altri edifici circondanti la piazza. Dino si volta verso l’entrata, e un attimo dopo le alte porte di vetro si schiudono piano, inghiottendo il fiume di persone. Infila la mano nell’elegante giacca serale, cerca velocemente il biglietto. C’è ancora. Dino si dirige quindi verso il suo posto, in prima galleria. “Da quanto tempo non entravo qui!” esclama tra sé e sé elettrizzato.

La sala è magnifica, con pianta a ferro di cavallo “stretta”, ossia rastremata verso il boccascena, un’evoluzione estrema e rigorosa dell'antico teatro greco. Tre ordini di gallerie si innalzano dalla platea, completate ai lati da quattro file di palchi, ognuno delimitato da un’apposita balaustra. Sulle pareti risaltano gli stucchi settecenteschi, incorniciati da capitelli corinzi sormontati da alcune sculture classiche. L’alto soffitto affrescato ipnotizza gli spettatori: l’occhio si perde dentro alle complesse trame di colori e sfumature, alle forme tondeggianti, ai decori ridondanti. Lo sguardo di Dino lo percorre da cima a fondo. Intanto la platea inizia a riempirsi, mentre le gallerie pullulano già di testoline che si affacciano dalle balconate. Un climax di sommesso vocio diffonde nell’aria, l’attesa si fa sempre più breve, e il desiderio di assistere allo spettacolo è alle stelle: d’altronde è il miglior evento dell’anno, ultimo appuntamento della stagione. Vi è inoltre l’inedita presenza di uno dei migliori direttori d’orchestra a livello internazionale, accompagnato da musicisti e attori di altrettanto spessore. La sala è ormai colma di spettatori, a formare un insieme di giacche e vestiti eleganti che visti dall’alto della galleria appaiono come un sobrio dipinto puntinista. Terminate le ultime prove e data l’ultima ripassata agli spartiti, anche i musicisti ora sono pronti per iniziare. Il brusio cala, tutti finiscono di interloquire. Dino dà un’occhiata alla signora accanto a lui, protesa in avanti pronta a godersi lo spettacolo. Cala il silenzio. Ci siamo. Nessuno fiata. Nessuno entra. Il tempo scorre lento, passano i secondi. Le luci rimangono accese, il palcoscenico vuoto. Un signore si volta indietro, come a chiedere spiegazione. Poi un altro, e un altro ancora. Sembrano d’un tratto diventati tutti muti, si guardano intorno incrociando lo sguardo dei vicini altrettanto interrogativo. Nessuno osa parlare, ma il palco continua ad essere vuoto. “Dove sono gli attori?” chiede infine una signora. “Dov’è il direttore?” gli fa eco un signore dalle prime file. La stessa domanda riecheggia di bocca in bocca fino a giungere allo staff del teatro, non meno sorpreso degli spettatori. “Saranno in ritardo, o avranno avuto un contrattempo, ma a noi non è stato riferito nulla” spiega con tono forzatamente calmo uno di loro. Intanto l’atmosfera si carica di preoccupazione: ”Ma arriveranno entro breve? Sarà successo qualcosa di grave?” Non esiste certezza in questo momento, e la fantasia umana inizia dispettosa a creare domande e ipotesi sempre più farraginose. Saranno certamente in ritardo, pensa Dino, può capitare, un costume strappato, un trucco da risistemare. Oppure è tutto studiato a tavolino ai fini dello spettacolo, d’altronde di questi tempi si punta sempre più sull’originalità. “Ebbene questa l’ultima trovata: disorientare il pubblico per poi stupirlo con un’entrata a sorpresa, davvero geniale!” ipotizza tra sé e sé Dino. Ma degli attori nemmeno l’ombra. Passano i minuti e la situazione non cambia, anche i musicisti discutono perplessi. “Ma che storia è questa?” esclama un signore dalla terza fila alzandosi in piedi, seguito da altre persone in platea, ora riempita da un incalzante vocio. Crescono i dubbi, “Forse la serata è stata rinviata e non è stato comunicato?” ipotizza la mia vicina di posto, in un estremo tentativo di spiegare razionalmente la situazione. Dino però ora si accorge di non essere minimamente interessato all’evoluzione di quella grottesca circostanza, piuttosto è attratto dalle persone intorno a sé. Reputa quindi interessante notare il panorama delle diverse reazioni che scaturiscono da ognuno dei presenti, andando a comporre un’infinita varietà di caratteri e personalità. Il paziente attende al suo posto composto e pacato l’inizio dell’opera, il burbero minaccia di andarsene con fare iroso, l’ottimista ride da solo infischiandosene del contesto, il pessimista si deprime per aver sprecato inutilmente i soldi del biglietto, l’impaziente ha già il cappotto in mano pronto ad uscire, il preciso sottolinea orologio alla mano che siamo in ritardo di 25 minuti e 55 secondi, il paranoico si chiede perché tutti lo stiano fissando e inizia a ripetersi che è tutta colpa sua, non doveva applaudire così forte pochi istanti prima… Oramai sono tutti in piedi, c’è chi interloquisce con i musicisti, abbarbicati nella loro postazione sotto il palco, chi dalla platea dialoga spensieratamente con le persone sulle balconate, proprio come un ragazzino appena sceso in strada farebbe con l’amico rimasto alla finestra, chi ne approfitta per fare un tour improvvisato lungo le gallerie, come se fosse in un’esotica città turistica…insomma la situazione sta velocemente cadendo nel caos: più che un teatro la sala pare ora una stazione ferroviaria all’ora di punta, ognuno indaffarato e occupato a modo suo. Dino è divertito e allo stesso tempo spaesato, ma continua ad analizzare ciò che sta accadendo.

venerdì 6 ottobre 2017

-A-

Se non fossi solo
Tua madre,
forse neppure mi parleresti
laggiù in quel fragile impero
di silenziosi aliti ebbri
che sormontano della giovinezza, i colli spensierati.
Come una mattina perenne,
una fosca brina di corallo
avvolge il mio sguardo
immerso nel tuo mare mosso
e vorrei vedere oltre
eppur mi sfuggi spumeggiante
nel verso del tuo volo,
dapprima esile, poi scuro
come piombi.
Non fossi stata che tua madre
forse neppure un sorriso
sguainato dalla fondina
dell'era di morbida creta,
m' avresti lanciato;
eppur son solo tua madre
e mi basta nell'amore.
A



Non dirmi che hai paura

In accordo alla bella iniziativa che ha intrapreso la nostra associazione con i ragazzi di Santa Caterina, invito tutti a leggere lo stupendo libro di Giuseppe Catozzella, "io non ho paura". Vi aiuterà a capire tanto sulla realtà di molti di quei ragazzi. Vi lascio qui sotto una mia recensione/considerazione del libro; spero vi piaccia.

"Emozione, desiderio, sorrisi, ma allo stesso tempo tristezza, ricordo e riflessione... Questo è 'Non dirmi che hai paura'. Il tutto proposto dagli occhi di Samia, ragazza somala che tenta di inseguire i suoi sogni, seppure contrastati da innumerevoli ostacoli; ostacoli davanti ai quali forse ognuno di noi si sarebbe fermato e si sarebbe lasciato bloccare dalle difficoltà che il proprio Paese gli poneva davanti. Ma noi non siamo Samia.
Il suo sogno era correre, essere la più veloce di tutte. Sfruttare quel vento che sin dai primi anni Alì, il suo migliore amico ed il suo primo allenatore, le diceva di cavalcare per arrivare il più lontano possibile. La guerra non le faceva paura, non perché le desse poco peso, ma perché la passione che coltivava aveva il potere di sovrastare qualsiasi cosa, a volte anche lei stessa; tant'è che il suo sogno voleva raggiungerlo proprio nella sua nazione.
Nel pensiero di Samia niente poteva fermarla, dalla discriminazione al burqa, dalle persecuzioni agli spari; tutto nella sua giovane mente non poteva averla vinta sul suo obiettivo di diventare il simbolo delle donne somale. Ma la guerra è fin troppo forte, capace di portarle via i rapporti migliori e persino il suo 'aabe', l'uomo che le aveva insegnato tutto e che era la più forte motivazione di ogni suo passo, la sua base, il suo sostegno. Così anche la più grande guerriera, come la definiva aabe, che lottava e correva per la libertà, fu costretta ad arrendersi ed ad affrontare ciò che fin da subito voleva evitare ed al quale non si sentiva di appartenere: il viaggio. Un'esperienza logorante, che porta in tutti i suoi tratti la fatica di riconoscere sé stessi. Un punto nel quale sorge la paura che in fondo tutto sia solo un sogno, che niente di ciò per cui si è combattuto sia effettivamente realizzabile. L'obiettivo era di arrivare al mare, il mare che Samia ammirava da lontano sin da bambina; quel mare che per lei era fonte di desiderio, ma anche di tanta insicurezza.
La guerra costituisce lo scenario predominante della storia; tutto inevitabilmente deve dipendere da quello che viene imposto dal sistema del Paese. Una realtà complicata da accettare, una realtà che è più difficile fermare che iniziare. Il libro riesce così a darci un'immagine drammatica di una parte del mondo in cui viviamo, in un periodo nel quale la guerra è un'aspra realtà quotidiana in diversi continenti. La domanda che viene spontaneo porsi è: perché? Perché tutti gli interessi vanno a confluire in una guerra? La risposta purtroppo non esiste. Il combattersi a vicenda sembra quasi il processo naturale dell'uomo, dettato dall'ignoranza, dal non conoscere; un processo per arrivare ad un equilibrio che forse è impossibile da raggiungere. Così Samia e aabe considerano la guerra come qualcosa per la quale è meglio far finta di non aver paura, per fare in modo che non diventi parte di noi stessi e ostacolo dei nostri desideri. Samia, come ognuno di noi, rincorre i propri sogni, obiettivi necessari per migliorarsi giorno dopo giorno. Un sogno alla ricerca della propria felicità e della serenità di un intero paese che lei rappresenta. Un sogno per cui combattere in ogni momento, con ogni fatica, con ogni briciolo di speranza che rimane, con la consapevolezza che non sempre può essere realizzabile.
Così Giuseppe Catozzella riesce a farci riflettere su diversi temi, su contenuti che appartengono non solo a Samia, ma anche ad ognuno di noi. Tutto racchiuso in una storia vera di una ragazza somala che combatte per il suo futuro, che lo stile delicato, dolce e sensibile dell'autore riesce a rappresentare appieno. Una storia capace di emozionare, di farci mettere una mano sul cuore ed allo stesso tempo di lasciarci tante domande nella mente. Una ragazza il quale sorriso ed desiderio sovrastano ogni cosa pur di arrivare fino in fondo, portando con sé le proprie emozioni; speranze racchiuse tutte in poche parole, ribadite da Mannaar, la nipotina di Samia, con la leggerezza che solo una bambina può avere: 'Non dirmi che hai paura' ".

Andrea Ricci

Nightmare's diary pt 1

Era l’ennesima sera tranquilla e nebbiosa, ma indubbiamente quella che Dina avrebbe ricordato di più.
Passeggiava con due amici dai volti lunghi ed ombrosi, non avrebbe saputo neanche dire i loro nomi, ma lo sapeva, lo sentiva che erano suoi amici. Di quelli veri, che si sarebbe portata dietro tutta la vita, di quelli fidati. Lo sapeva che era così. Ma in quel momento, in quella sera, non sarebbe stata capace nemmeno di dire i loro nomi.
Passeggivano lungo un viale illuminato tenuamente da vecchi lampioni. Era tutto tranquillo e silenzioso, solo i passi sull’asfalto rompevano la quiete. Ma il loro era un silenzio d’intensa. Certe amicizie non hanno bisogno di costante intercomunicazione.
Quella mattina, dopo esser usciti da scuola tutti e tre insieme, avevano deciso di percorrere una strada di ritorno alternativa, così, per cambiare.
Avevano quindi oltrepassato la scuola dal lato destro, invece che dal consueto sinistro, allungando la strada di una decina di minuti.

“No”, aveva pensato Dina, “la mamma non si arrabbierà anche se tarderò.”

Avevano attraversato un bel parco in cui i colori autunnali risaltavano: al loro passaggio, accompagnato dal vento, venivano seguiti da leggere foglioline gialle e rosse, calde dell’ultimo sole. Chiaccheravano allegramente, discorrevano di scuola prendendo in giro quel nuovo professore un pò goffo, e che forse era troppo buono per una classe come la loro. Oppure rimanevano in silenzio, ognuno assorto nei suoi perchè, nei suoi per come, nei suoi niente.
Dina continuava a cercare di focalizzarsi sul viso di uno dei due amici, ma proprio non ci riusciva. Era come se quella mattina non fosse più capace di ricordare nomi e volti. Mentre si concentrava su questo pensiero, il paesaggio aveva abbandonato il parco per dedicarsi a zone di abitazioni disabitate. Case e capannoni dai vetri rotti, macerie sui giardini, carcasse di autovetture arrugginite a fianco degli stabili, alle quali immancabilmente mancavano le ruote, i sedili, il cofano...
Erano profondamente assorti da questo paesaggio, che mostrava loro una zona surreale e sconosciuta della dolce cittadina. Possibile che non si fossero mai accorti di un posto così?
In fondo alla strada si stagliava un lungo casolare da industria, monopiano e dal tetto basso ed orizzontale. Le finestre, man mano che si avvicinarono, erano rettangolari e strette, tutte parallele e dai vetri opachi di polvere. Particolarmente curiosa era l’entrata: mancava della porta a doppio battente, era solo un buco vuoto che dava sul buio leggermente illuminato dalla luce delle finestre. Rallentarono un poco per sporgersi dalla strada e curiosare verso quella voragine.
Dina si trattenne sul marciapiede, qualcosa le suggerì di non avvicinarsi troppo.
I due amici intraprendenti avevano invece varcato il cancello aperto, si addentravano nel giardinetto di cemento, osservavano verso la porta. “Cosa gli suggerisce il cervello?” pensava la ragazza.

mercoledì 4 ottobre 2017

Le vedove immortali (di Michele Castellari)

A Imola, come ancora in tanti comuni della mia provincia, esiste l’abitudine di attaccare in più punti della città manifesti listati a lutto, contenenti i necrologi delle persone scomparse.

E’ il cifrario accorato e partecipe delle piccole comunità, in cui tutti si conoscono e in cui la morte di ognuno è ancora una notizia importante e di interesse generale, oltre che l’ultimo spunto narrativo e quasi fiabesco per quella cordiale tessitura di voci, aneddoti, sentimenti che da sempre unisce e coinvolge i luoghi in cui gli anziani prevalgono numericamente su tutti gli altri.
A Imola in genere si muore vecchi, o molto vecchi. In genere muoiono prima i vedovi delle vedove. In genere i vedovi erano già morti prima di morire, perché da vivi li vedevi aggirarsi spauriti e stonati appoggiati a un bastone o lucertolati ad un muro, come ossi di seppia tralasciati sulla riva dalla risacca della vita. Le vedove, invece, in vita emanavano ancora una specie di splendore soddisfatto, di energia tragica, che mai le distraeva un attimo da tutto quel che restava da dire e da fare, e che oggi trapassa persino nelle espressioni lucenti della loro ultima fotografia. Che è già lì a preannunciare una morte indaffarata, e lo sbarazzino sgambettio della defunta persino di là, a rassettare le stanze del nulla.
Sotto il nome del morto è riportato a volte il suo soprannome, quello con cui tutti lo chiamavano in vita e che deve servire a identificarlo immediatamente senza altri sforzi di memoria. Spesso sono soprannomi dialettali, sincopati, tronchi; a volte diminuiscono il nome proprio, a volte lo vezzeggiano, altre volte ancora lo sfotticchiano delicatamente.
In altri casi invece, anche a girarlo e a ribaltarlo in mille modi il soprannome non svela nulla del nome di battesimo e addirittura è a sua volta un altro nome completamente diverso. E in quella piccola impostura onomastica pare allora di ritrovare quegli antichi codici segreti dei gruppi ristretti dentro i gruppi più larghi in cui si scappava via dall’autorità delle famiglie, delle scuole, degli eserciti, e si provava a rifondare se stessi dentro un’identità nuova e autentica, apparentemente conosciuta solo dai propri compagni di congiura e custodita solo da loro.
A Imola, a quanto si legge sui manifesti, i funerali religiosi sono ancora più numerosi di quelli civili. A volte le celebrazioni sono annunciate in modo franco, lineare, come sigillo inappuntabile di una vita di fede e devozione: e in quei casi il nome della chiesa, le modalità della benedizione sono snocciolati dai parenti con orgogliosa fierezza e, oserei dire, con un filo di vanità.
Altre volte, soprattutto per quelli degli uomini, e soprattutto per quelli di cui si intuiscono passati anarchici, socialisti, anticlericali, la notizia del transito in chiesa della salma è data in modo imbarazzato, quasi stupefatto: questa volta il prete diventa l’intermezzo clandestino tra la sosta iniziale nella camera mortuaria per il commiato civile dal defunto e quella conclusiva al cimitero, per la sua cremazione. Lenin diceva che la religione, nella vita degli uomini, è un’acquavite spirituale. Per gli uomini imolesi verrebbe da dire che la religione diventa tale soltanto in morte, e con lei si brinda insieme agli altri sulla propria tomba, scommettendo per l'ultima volta di potere ubriacare persino Dio.
A Imola muoiono qualche volta i quarantenni, i ragazzi giovani, persino i bambini. Ne danno l’annuncio messaggi dolci e sobri che sembrano infilati in mezzo agli altri quasi per sbaglio o per un refuso grammaticale del destino, ma che subito li sovrastano e li annullano e li attirano a sé dentro un vortice di tristezza.
Mai come in quel caso il necrologio è allora la coreografia letterale di uno scandalo: la lista infinita dei congiunti, tutti più vecchi di colui che si saluta; il numero striminzito dell’età del defunto, che ingrandisce agli occhi ogni volta che lo riguardi per capacitarti di quel che leggi; la sproporzione infinita tra l’entità di un dramma incomprensibile e la povera e inutile compostezza con cui chi resta convoca gli altri all’ultimo saluto a messa. A chiedere ragione di cosa ? E perché ? E soprattutto, a Chi ? "Signore, avvicina a noi questo calice, perché questa è la Tua volontà, e non la nostra". Acquavite spirituale, come si diceva.
Print Friendly and PDF