domenica 17 dicembre 2017

Legame

Gomitoli di amore
tra le mani della vita
Intrecciano fili di esistenza
Nella fattura... abili le mani
uniscono la fragilità
alla resistenza
Scelgono il tono per la bellezza
...e lo spessore per il valore
Nel tessere
la vita, trama colori  facili da accostare

Siamo dello stesso tono di colori

Maria Mancino



martedì 12 dicembre 2017

Anni

Ho appeso tele di vita vissuta
su pareti di spesso cemento
ne ho ammirato le scene
Testimoni di un vero destino e di un duro cammino
Ho gustato il valore di una nuova scoperta.... negli anni che mutano sogni e valori
Ho dormito abbracciata alla notte
...che indossava il mio stesso vestito
E al risveglio... ero grande

Maria Mancino

Fonte foto: Elisa Bellino

domenica 10 dicembre 2017

Storie di cane (di Eva Tondini)

Eva e Sasha
Oggi è il 14 luglio 2017.
Sasha, il mio primo cane, è nata circa cinque anni fa, il 6 luglio 2012, ed ha raggiunto la mia casa poco dopo, il 25 settembre dello stesso anno.
Ricordo ancora quel giorno, vivido nella mia mente e nella mia memoria.
Mnemosine fa il suo dovere quando si tratta di lasciar rivivere le emozioni.
Ero eccitatissima. Una settimana addietro l’avevo vista per la prima volta ed era stato subito amore. No, non era lei ad essersi innamorata di me, ma io di lei. Lei non fu subito il mio cane, ma posso dire con certezza che io fui subito il suo umano.
Ma nel momento stesso in cui la desiderai così tanto, compii due atti di Vergogna. Il primo, la portai via dalla sua mamma per mero egoismo, perchè mi sentivo sola e volevo una compagna di vita, qualcosa di cui prendermi cura: in una sorta di autoesaltazione, volevo che un’anima di questo mondo mi considerasse un dio.
Il mio fu egoismo.

Il secondo gesto di Vergogna, il giorno in cui la scelsi, fu pagare. L’anima del mio cane, il suo cuore che batte, il suo cervello che pensa, l’amore che mi avrebbe dato, la sua carne biologicamente viva e calda... pagai una vita 800 euro. Io ho comprato un’altra esistenza. Ho comprato il suo futuro, per averlo fuso al mio, sempre per egoismo.
Quando la presi in mano per la prima volta, era un grasso cucciolo brutto, grigio come un agnello, dal vello morbido e profumato di latte e sabbia. Piangeva. Lei non mi voleva, voleva la sua mamma, grosso cane di cinquanta chili, dallo sguardo gentile e rassegnato a vedersi strappare ad uno ad uno i propri figli.

Ma i cani si adattano in fretta.

Prima di Sasha di cani sapevo solo la teoria insegnatami dai trattati di Konrad Lorenz. Ho imparato in seguito quanto la teoria si discosti dalla pratica.
Portai a casa un cucciolo spaventato che subito mi individuò come fonte di sicurezza. Per i primi tre mesi nella mia casa lei non smise un giorno di ringhiare a mia madre, e a nascondersi al suo arrivo; poco tempo dopo iniziò a portarle i suoi giochi preferiti.

I cani si adattano in fretta.

Dopo qualche giorno che viveva con me iniziò ad interessarsi alle mie abitudini e spostamenti.

Per la prima volta mi seguì in bagno (abitudine ferrea negli anni seguenti, la privacy è inesistente con un animale in casa). Mi stavo iniziando a spogliare per fare una doccia. Il cucciolo, terrorizzato dal fatto di vedermi “togliere la pelliccia di dosso”, ovvero i vestiti, si scagliò giù dalle scale ruzzolando e guaendo come se avesse visto uno spettro. Con me dietro che la inseguivo, preoccupata, chiamandola, nuda. Una scena bellissima, si sentiva inseguita da un mostro mutaforma.
La povera bestiola non comprendeva come la mia pelle reale fosse sotto i vestiti, e non i vestiti.
Dunque, la prima volta che mi vide nuda impazzì di paura. Per fortuna finora mi è successo solo con il cane...
Qualche settimana fa tornai a casa stanca dalla lunga giornata con l’intenzione di mettermi qualche vestito comodo. Lasciai la mia camicia rosa sgargiante a maniche corte e scacchi appesa ad una delle sedie del tavolo da pranzo in sala.
Salutai il cucciolo devoto ed andai in camera per cambiarmi, ma era già un caldo torrido ed optai per un pantaloncino corto sportivo abbastanza arrogante, col pensiero di rimettermi addosso la camicia aperta lasciata di sotto.
Mentre compivo queste azioni sentii provenire dal piano di sotto dei rumori forti come di legni che sbattevano. Scesi preoccupata, cercai la camicia per coprirmi ma non la trovai.

Girai per casa cercando la fonte del rumore, niente. Tornai in sala.

Sul divano, come se nulla fosse, c’era Sasha acchiocciolata. Metà di lei non si vedeva, il muso coperto. Solo il naso, incastrato, sporgeva da una delle maniche della mia camicia, la testa oscurata dal resto del capo di vestiario.
L’animale ingenuo, giocando, si era incastrato nella manica e spaventato aveva sbattuto il testone contro porte e muri, ma avendo riconosciuto il divano vi era salito sentendomi arrivare, e con nonchalance faceva finta di niente. Mi sentii in dovere di testimoniare l’accaduto con una serie bellissima di foto che mi sarebbe piaciuto allegare alla storia. Il mio cane è epico.

domenica 3 dicembre 2017

Tito (di Mirella Morara)

Il giorno della candelora arrivarono con le macchine lustrate .
Scesero uomini schiamazzanti vestiti a festa.Erano più di una ventina.
Tito si fermò a guardarli, stupito da quella insolita apparizione.
-Vieni, lo strattonò sua madre riprendendo la direzione della chiesa.
-Sei il solito curioso.
La messa in latino fu lunga, più lunga del solito.
Tito si girava spesso verso l'uscita per vedere se quegli sconosciuti fossero entrati.
Ma vide le solite facce del paese, facce spente che portavano negli occhi la paura e la povertà
a cui la guerra li aveva indotti.

-Chi erano? Che volevano?
Si chiedeva la gente uscita sul sagrato.
-Hanno chiesto della Paventa, disse il Rosso.
-Si sono avviati a piedi, verso i monti, vedrete andranno poco lontano, l'unica donna aveva persino i tacchi.
Il Rosso nell'indicare la direzione, preso dalla foga inciampò negli scarponi infangati.
Era uno dei pochi della sua età rimasti, troppo piccolo per essere arruolato e tra i partigiani, si diceva fosse stato liquidato per quella sua gamba poliomelitica che si trascinava dietro a fatica.
Il Rosso o lo scemo, lo chiamavano, e questo dice tutto.
Dalle cime scendeva una nebbia che ovattò il paese.
-Non troveranno la strada, ridacchiò il Rosso, tra un po' torneranno indietro, sembra vengano da Bologna.
Il vecchio allora perse la pazienza.
-Smettila di sparare cagate, le chiacchiere non servono, potevi seguirli o dirci subito qualcosa. Qui siamo rimasti in pochi e le donne e i bambini hanno sempre più fame.
-Lassù ci sono i nostri figli.Se i tedeschi sfondano...si mette male
-Vado io, disse il vecchio, tu sei un buono a nulla.
La vecchia gli si parò contro
-Gino non andare, faranno una gita...
-Ah, ah, una gita, questa è buona. Il Rosso era ormai piegato dalle risate.
-Demente! Disse il vecchio, avviatosi ormai verso la strada per l'altipiano.
Un silenzio irreale li avvolse.
La gente rientrò in fretta alle proprie case.
-Tito, lo cercò sua madre. Lui stava vagando tra quei parafanghi dorati, accarezzava la vernice delle portiere umide di nebbia ,sognava di rubarne una e sorpassare le camionette dei tedeschi quando passavano in perlustrazione.
-Tito! Tito, andiamo, i nonni ci aspettano.
-Erano in tanti; io e il nonno li abbiamo sentiti mentre prendevano il crinale, gli uomini parlavano, la donna rideva. I cani nell'aia parevano impazziti , poi quello che guidava il gruppo si è avviato verso la casa. La nonna che sino allora era rimasta fredda e dura allora si mise a piangere.
-Lui non voleva andare, ma quello che chiedeva di loro, il capobranco ha tirato fuori la pistola e gliela ha..
- Ma il babbo dov'è ora ? Chiese la mamma che era sbiancata
-Se lo sono presi, cercavano la strada per incontrare i "loro"
La nonna teneva in grembo dei coniglietti appena nati. la coniglia era morta nello sgravidare,
e lei li aveva salvati col latte di mucca. Nel dirlo, parve prendere coscienza solo allora della gravità dell'accaduto e nell'alzarsi lasciò cadere i coniglietti che rotolarono sulle lastre del pavimento.
-Mangiamo, nonno tornerà presto ma non ora e la polenta è ormai fredda, affrettò mia madre.
Tito nel frattempo raccolse i conigli, li rimise nella cesta e li riporto' nella stalla.
A tavola nessuno parlò, dalla finestra si vedeva salire la nebbia, mangiava le foglie di fico e addensava verso la costa, là dove pareva non esserci più nulla.
A casa però la mamma e i nonni parlavano spesso di loro, che da tempo avevano preso la via dei monti.Facevano attenzione a non farne riferimento in sua presenza, li sentiva discorrere sottovoce.
Ma chi erano loro, cosa ci facevano sopra gli altipiani e proprio ora che stava arrivando l'inverno...
"Quindi sopra la nostra casa a decine di chilometri, che dico, a pochi chilometri, c'è un mondo di cui io non so nulla" Pensava fra sè Tito
-Vado incontro al nonno.
Si alzò di scatto, lasciando nel piatto i fagioli che avevo spolpato dalla polenta.
-Tu non vai proprio da nessuna parte, sua madre lo respinse a sedere.
-E adesso finisci di mangiare, lo sai che è peccato lasciare del cibo nel piatto

Dante imboccò la mulattiera che s'innesta sul sentiero del crinale
Dietro sentiva il gruppo. Alcuni imprecavano, altri bestemmiavano.
-Dobbiamo fidarci del vecchio? disse qualcuno.
Poi saltò su il giovane che sino allora non aveva fiatato.
Aveva tra le mani la cartina che gli aveva passato quello che sembrava essere il capobranco. -Stiamo raggiungendo il crinale, la casa dovrebbe essere qui, vedi oltre l'altro versante. -Andiamo bene. I nostri non dovrebbero essere lontano da qui
Se qualcuno di loro mi vede, è fatta, pensava Dante e non sentiva nemmeno la fatica, nemmeno ora che iniziavano i primi fiotti di neve.
Ma percepiva il gruppo in disgregazione. Alcuni erano tornati indietro, anche della donna non sentiva più le risa sguaiate e questo gli dette forza.
-Io vi lascio qui, proferì Dante col suo accento toscano -Ormai siete a buon punto, avete già capito la strada.
Quello della cartina d'improvviso gli si avventò contro prendendolo per il bavero della giacchetta lisa.
-Vecchio stronzo, se pensi di tornartene a casa per parlare, non hai capito niente, tu non ci hai visti, capito!
Dante paralizzato non fiatò.
-Lascialo, s'intromise il capobranco.
Altri che fino allora avevano taciuto attaccarono.
-Con quella parlantina toscana, ci fregherà.

domenica 19 novembre 2017

Nightmare's Diary pt 2

“Cosa vuoi farmi? Dove sono?”

“Chi sei? Non farmi del male ti prego...”

“Ti scongiuro non farmi del male...”

Un conato di vomito la costrinse al silenzio.
Nell'oscurità della stanza, l’uomo muoveva degli strumenti su un tavolo. Non si curava delle urla e dei pianti di lei, non si curava di niente attorno a sè. Aveva la sua missione. La ragazza doveva pagare, nessuno può giocare a fare Dio, men che meno una puttanella come quella. Avrebbe pagato, così si sarebbe purificata.
La sua era una missione di fede, di fede pura e amore per Dio. Punire i colpevoli: gli umani non possono sostituirsi alla divinità, solo Lui può scegliere della vita e della morte, e in questo caso, della punizione.
Dio gli aveva detto come castigare la ragazza. Lo avrebbe fatto, sì. Era un servo devoto ed obbediente. E quegli strumenti erano a loro volta suoi servi. “Ciò che volevi uccidere, ti ucciderà”, pensava e sorrideva della pena di contrappasso che gli era stata commissionata questa volta. Baciò la croce che portava al collo e prese la prima siringa.

7’00: sveglia

7’05: seconda sveglia

7’09: Maria si tirò su dal letto prima che suonasse anche la terza insopportabile sveglia. “Ennesima giornata del cavol...”. Corse in bagno. Le nausee mattutine erano iniziate da un paio di settimane. Non sopportava dare di stomaco, non sopportava stare male fisicamente.
“Un’altra settimana così e m’impicco”. Uscì dalla stanza, sperando che anche quel giorno i suoi non si fossero accorti di nulla. Non sapevano ancora niente, e mai avrebbero dovuto saperlo, troppa vergogna per lei e la sua famiglia.

Si era innamorata per la prima volta in vita sua, e si era sentita felice, amata. Anche quella mattina pensava a lui. Chissà che fine aveva fatto. Proprio come nelle commedie, rimasta incinta lui si era volatilizzato e probabilmente aveva anche già ottenuto la cittadinanza messicana.
“Sono un’idiota”. Per quanto fosse domenica, si era svegliata presto per sbrigare un pò di impegni scolastici rimandati e che non potevano più aspettare. Così avrebbe potuto studiare un paio d’ore prima di andare in Chiesa con mamma e papà.
Credeva in Dio, profondamente, ma non quanto i suoi: troppo, troppo ortodossi. Avrebbero voluto che si mantenesse “integra” fino al matrimonio, ma diavolo siamo nel terzo millennio, pensò. E inoltre la storia con lui era anche iniziata in Chiesa, al catechismo pomeridiano del sabato, e certe cose non si controllano.

sabato 11 novembre 2017

Malinconica mattina

Malinconica mattina che profumi
d' autunno
avvolgi il mio corpo
nelle tue nuvole a stracci
riempi i miei occhi di sogni proibiti

Io posso regalarti i miei passi sulle tue foglie senza vita
Posso donarti l'amore del mio debole cuore
e i miei poveri versi dedicarli al tuo dolore

Posso regalarti la mia malinconia
In questa stagione
dove ci siamo solo tu ed io

Maggie

Fonte GIF: L'Amletico

giovedì 9 novembre 2017

Rimbalzi

La carne ti vuole e il cuore ti duole
Sobbalzi di notte in un sogno di morte
Seppur di morire nemmeno ti importa

Rimbalzi al mattino su pensieri pesanti
Li lasci nel sonno
tra lenzuola cadenti

Lo specchio ti guarda
un po' disperato
ma sta' per urlarti...ti sei appena salvato!
Maggie

Fonte foto: Focus


martedì 31 ottobre 2017

Non cercavo che te

Ho stazionato in paludi di melma
e ho supplicato il vento
perché asciugasse il fango
Non cercavo che te...
Mi sono rotolata
abbracciata alle cicale in canto
aspettando che pronunciassero il tuo nome
Ho strappato le vesti dei passanti
Sperando che ti fossi nascosto in uno di loro
Ho visto morire un giorno
poi un altro ancora
Non cercavo che te...
Divino essere
...tu eri già in me
Maggie


giovedì 26 ottobre 2017

La Religione del Sapere

Dante e le tre fiere
Fonte foto QUI

Dino si ritrova nel suo paese. Esce di casa, è una tranquilla giornata di primavera. La vita scorre tranquilla nella piazzetta di fronte alla sua abitazione. Percorre le vie del paese, saluta alcuni conoscenti, fin quando non ne incontra uno particolarmente di fretta. “Giovanni! Dove vai così spedito?” “Dino! Che piacere rivederti! Sto andando alla messa delle 17, tra poco finiranno i posti in prima fila!” Dino non ricorda il suo amico come particolarmente religioso, anzi egli è solito definirsi addirittura agnostico. Insieme all’amico Giovanni, vede altre persone dirigersi con la stessa fretta verso la chiesa del paese, così incuriosito decide di seguire questo flusso di uomini, donne, bambini, ragazzi e ragazze diretti tutti verso la stessa meta. Giunto alla chiesa scopre un’intera folla circondare l’entrata, e pian piano prender posto all’interno dell’edificio, che seppur non sia piccolissimo fatica a trattenere quella massa di persone così coinvolte. Dino si intrufola nelle ultime file, accontentandosi di seguire la funzione in piedi. Dopo qualche minuto il brusìo cala, ed un modesto corteo fa la sua entrata dall’ingresso principale. Dino è subito colpito dal vestito bizzarro del parroco: assomiglia molto ad una toga accademica, bordata dal pelo di quello che sembra ermellino, e ricamata da dettagli dorati. Inoltre un cappello squadrato ed un vistoso medaglione argenteo completano il corredo di quello che non sembra affatto un funzionario ecclesiastico. Egli è accompagnato da altri uomini vestiti sempre con una lunga toga e pelo d’ermellino, ma senza calzare nessun copricapo e sprovvisti di medaglione argentato. Ognuno porta con sé diversi tomi tra le mani, almeno tre o quattro ciascuno. Infine Dino nota che tutti i protagonisti del corteo hanno cucito sulle toghe uno spesso bordo bianco. Arrivati all’altare, i funzionari si dividono disponendosi simmetricamente rispetto all’uomo con medaglione e copricapo, che tutti ora fissano attentamente. Il silenzio è interrotto soltanto dal debole fruscio proveniente dalle pagine dei volumi che gli uomini del corteo stanno meticolosamente disponendo sull’altare, e uno dopo l’altro, trovata la pagina esatta, si accomodano su eleganti sedute di marmo. L’uomo chiave, rimasto in piedi al centro dell’altare, prende ora la parola avviando un discorso solenne incentrato su un tema particolare: il sapere. “Che cosa bizzarra!” pensa Dino.

mercoledì 18 ottobre 2017

"Georges Simenon"

Georges Simenon
Un'altra cosa che uno non dovrebbe mai perdersi nella vita è il tepore gelido dei romanzi di Georges Simenon. Maigret certamente, ma prima ancora tutti gli altri. "La camera azzurra", "La finestra di fronte", "L'uomo che guardava passare i treni", "Faubourg". Simenon è un romanziere molecolare, che procede per sottrazione ed essiccazione, e dunque è difficile definire la vastità di un vetrino al microscopio. Si può dire innanzitutto cosa Simenon non è. Non è uno scrittore sociale, perché gli interessano poco i processi storici e le procedure di classe. Non è un ingegnere delle trame sconvolgenti a svelamento finale, perché i suoi gialli hanno talora soluzioni stanche, deludenti, e spesso un colpevole annunciato che non mancherà le attese. Non è un mestierante furbo delle tessiture sanguinolente o dei compiacimenti sessuali, perché nelle sue fabulae tutto scorre asettico, essenziale, cechoviano. Ma nel suo genere è forse il più grande narratore del Novecento. La sua prosa dondola come un'abitudine e ticchetta come un meccanismo a orologeria che la dilanierà. I suoi personaggi, sempre uguali nei sobborghi parigini o a Tangeri, alla fermata dell'autobus o su una nave in rotta per New York, sono spettri dolenti che anelano alla carnalità, o viziosi concupiscenti che preparano con meticolosa lena la propria dissoluzione. I dialoghi hanno la frenesia asciutta di un'opera di Beckett, le descrizioni d'ambiente sono sinestesie permanenti: odori colorati, musiche che rovistano, arredi che suonano il motivo dell'infanzia perduta, o della prigione eterna della famiglia, della casa, della provincia. Ho provato a leggerlo a volte in francese, e l'effetto è identico, nonostante quella lingua sia a volte tronfia, dispersiva. Tutto anche lì cigola, allude, procede per stillicidio e sgocciolamento all'alluvione finale. Poi certo, c'è Maigret. Il rapporto con la moglie, in cui ironia e complicità riscattano la stanchezza della carne. Le sue scorribande, lui uomo senza patente, a cavallo di taxi, di tram, di pattuglie trainate da sovrintendenti premurosi, come un principe rinascimentale che mal si attaglia alle autogestioni motorizzate della modernità. Dove lo scioglimento dell'enigma avviene alle volte un po' così, in modo forzato e svogliato, perché tutto il bello della storia era già scorso altrove: la pipa, il cognac, l'agguato d'acqua della Senna, i viali alberati dietro ai quali si nasconde il bandito lesto della malinconia, canaglia inafferrabile anche per i principi rinascimentali con un certo talento.

Michele Castellari

domenica 15 ottobre 2017

Fallo.

Fallo.

Indossa quel vestito troppo stretto.
Sciogli i capelli.
Alzati e balla.
Trova ragioni per ridere.
Fai l’amore.
Crea qualcosa di bello.
Parla.
Riconosci il tuo valore.
Non scusarti più per la tua magia
e smetti di nascondere la tua luce.
Amati.
Perdonati.
Fai spazio all’imprevisto.
Smetti di aspettare il momento giusto, fallo ora.
Ignora quello che la gente pensa di te.
Perchè alla fine sarai tu a dover rispondere per tutte le cose che non hai detto,
le persone che non hai amato,
le cose che non hai fatto
ed i luoghi dove non sei andato.
Fallo, adesso.





giovedì 12 ottobre 2017

WWW

Start
arresta il sistema
riavvia il sistema

vorrei riavviare
il sistema

ma forse meglio
che s’arresti.

Per sempre.


(Padre Nobile) 

mercoledì 11 ottobre 2017

Gli attori inconsapevoli (di Yari Mezzetti)

Kim Rossi Stuart a teatro
“Quando ci faranno entrare?” domanda in una nuvola di vapore una signora, alzando lo sguardo verso l’immensa sagoma muta e nera del teatro, imponente e solenne in mezzo agli altri edifici circondanti la piazza. Dino si volta verso l’entrata, e un attimo dopo le alte porte di vetro si schiudono piano, inghiottendo il fiume di persone. Infila la mano nell’elegante giacca serale, cerca velocemente il biglietto. C’è ancora. Dino si dirige quindi verso il suo posto, in prima galleria. “Da quanto tempo non entravo qui!” esclama tra sé e sé elettrizzato.

La sala è magnifica, con pianta a ferro di cavallo “stretta”, ossia rastremata verso il boccascena, un’evoluzione estrema e rigorosa dell'antico teatro greco. Tre ordini di gallerie si innalzano dalla platea, completate ai lati da quattro file di palchi, ognuno delimitato da un’apposita balaustra. Sulle pareti risaltano gli stucchi settecenteschi, incorniciati da capitelli corinzi sormontati da alcune sculture classiche. L’alto soffitto affrescato ipnotizza gli spettatori: l’occhio si perde dentro alle complesse trame di colori e sfumature, alle forme tondeggianti, ai decori ridondanti. Lo sguardo di Dino lo percorre da cima a fondo. Intanto la platea inizia a riempirsi, mentre le gallerie pullulano già di testoline che si affacciano dalle balconate. Un climax di sommesso vocio diffonde nell’aria, l’attesa si fa sempre più breve, e il desiderio di assistere allo spettacolo è alle stelle: d’altronde è il miglior evento dell’anno, ultimo appuntamento della stagione. Vi è inoltre l’inedita presenza di uno dei migliori direttori d’orchestra a livello internazionale, accompagnato da musicisti e attori di altrettanto spessore. La sala è ormai colma di spettatori, a formare un insieme di giacche e vestiti eleganti che visti dall’alto della galleria appaiono come un sobrio dipinto puntinista. Terminate le ultime prove e data l’ultima ripassata agli spartiti, anche i musicisti ora sono pronti per iniziare. Il brusio cala, tutti finiscono di interloquire. Dino dà un’occhiata alla signora accanto a lui, protesa in avanti pronta a godersi lo spettacolo. Cala il silenzio. Ci siamo. Nessuno fiata. Nessuno entra. Il tempo scorre lento, passano i secondi. Le luci rimangono accese, il palcoscenico vuoto. Un signore si volta indietro, come a chiedere spiegazione. Poi un altro, e un altro ancora. Sembrano d’un tratto diventati tutti muti, si guardano intorno incrociando lo sguardo dei vicini altrettanto interrogativo. Nessuno osa parlare, ma il palco continua ad essere vuoto. “Dove sono gli attori?” chiede infine una signora. “Dov’è il direttore?” gli fa eco un signore dalle prime file. La stessa domanda riecheggia di bocca in bocca fino a giungere allo staff del teatro, non meno sorpreso degli spettatori. “Saranno in ritardo, o avranno avuto un contrattempo, ma a noi non è stato riferito nulla” spiega con tono forzatamente calmo uno di loro. Intanto l’atmosfera si carica di preoccupazione: ”Ma arriveranno entro breve? Sarà successo qualcosa di grave?” Non esiste certezza in questo momento, e la fantasia umana inizia dispettosa a creare domande e ipotesi sempre più farraginose. Saranno certamente in ritardo, pensa Dino, può capitare, un costume strappato, un trucco da risistemare. Oppure è tutto studiato a tavolino ai fini dello spettacolo, d’altronde di questi tempi si punta sempre più sull’originalità. “Ebbene questa l’ultima trovata: disorientare il pubblico per poi stupirlo con un’entrata a sorpresa, davvero geniale!” ipotizza tra sé e sé Dino. Ma degli attori nemmeno l’ombra. Passano i minuti e la situazione non cambia, anche i musicisti discutono perplessi. “Ma che storia è questa?” esclama un signore dalla terza fila alzandosi in piedi, seguito da altre persone in platea, ora riempita da un incalzante vocio. Crescono i dubbi, “Forse la serata è stata rinviata e non è stato comunicato?” ipotizza la mia vicina di posto, in un estremo tentativo di spiegare razionalmente la situazione. Dino però ora si accorge di non essere minimamente interessato all’evoluzione di quella grottesca circostanza, piuttosto è attratto dalle persone intorno a sé. Reputa quindi interessante notare il panorama delle diverse reazioni che scaturiscono da ognuno dei presenti, andando a comporre un’infinita varietà di caratteri e personalità. Il paziente attende al suo posto composto e pacato l’inizio dell’opera, il burbero minaccia di andarsene con fare iroso, l’ottimista ride da solo infischiandosene del contesto, il pessimista si deprime per aver sprecato inutilmente i soldi del biglietto, l’impaziente ha già il cappotto in mano pronto ad uscire, il preciso sottolinea orologio alla mano che siamo in ritardo di 25 minuti e 55 secondi, il paranoico si chiede perché tutti lo stiano fissando e inizia a ripetersi che è tutta colpa sua, non doveva applaudire così forte pochi istanti prima… Oramai sono tutti in piedi, c’è chi interloquisce con i musicisti, abbarbicati nella loro postazione sotto il palco, chi dalla platea dialoga spensieratamente con le persone sulle balconate, proprio come un ragazzino appena sceso in strada farebbe con l’amico rimasto alla finestra, chi ne approfitta per fare un tour improvvisato lungo le gallerie, come se fosse in un’esotica città turistica…insomma la situazione sta velocemente cadendo nel caos: più che un teatro la sala pare ora una stazione ferroviaria all’ora di punta, ognuno indaffarato e occupato a modo suo. Dino è divertito e allo stesso tempo spaesato, ma continua ad analizzare ciò che sta accadendo.

venerdì 6 ottobre 2017

-A-

Se non fossi solo
Tua madre,
forse neppure mi parleresti
laggiù in quel fragile impero
di silenziosi aliti ebbri
che sormontano della giovinezza, i colli spensierati.
Come una mattina perenne,
una fosca brina di corallo
avvolge il mio sguardo
immerso nel tuo mare mosso
e vorrei vedere oltre
eppur mi sfuggi spumeggiante
nel verso del tuo volo,
dapprima esile, poi scuro
come piombi.
Non fossi stata che tua madre
forse neppure un sorriso
sguainato dalla fondina
dell'era di morbida creta,
m' avresti lanciato;
eppur son solo tua madre
e mi basta nell'amore.
A



Non dirmi che hai paura

In accordo alla bella iniziativa che ha intrapreso la nostra associazione con i ragazzi di Santa Caterina, invito tutti a leggere lo stupendo libro di Giuseppe Catozzella, "io non ho paura". Vi aiuterà a capire tanto sulla realtà di molti di quei ragazzi. Vi lascio qui sotto una mia recensione/considerazione del libro; spero vi piaccia.

"Emozione, desiderio, sorrisi, ma allo stesso tempo tristezza, ricordo e riflessione... Questo è 'Non dirmi che hai paura'. Il tutto proposto dagli occhi di Samia, ragazza somala che tenta di inseguire i suoi sogni, seppure contrastati da innumerevoli ostacoli; ostacoli davanti ai quali forse ognuno di noi si sarebbe fermato e si sarebbe lasciato bloccare dalle difficoltà che il proprio Paese gli poneva davanti. Ma noi non siamo Samia.
Il suo sogno era correre, essere la più veloce di tutte. Sfruttare quel vento che sin dai primi anni Alì, il suo migliore amico ed il suo primo allenatore, le diceva di cavalcare per arrivare il più lontano possibile. La guerra non le faceva paura, non perché le desse poco peso, ma perché la passione che coltivava aveva il potere di sovrastare qualsiasi cosa, a volte anche lei stessa; tant'è che il suo sogno voleva raggiungerlo proprio nella sua nazione.
Nel pensiero di Samia niente poteva fermarla, dalla discriminazione al burqa, dalle persecuzioni agli spari; tutto nella sua giovane mente non poteva averla vinta sul suo obiettivo di diventare il simbolo delle donne somale. Ma la guerra è fin troppo forte, capace di portarle via i rapporti migliori e persino il suo 'aabe', l'uomo che le aveva insegnato tutto e che era la più forte motivazione di ogni suo passo, la sua base, il suo sostegno. Così anche la più grande guerriera, come la definiva aabe, che lottava e correva per la libertà, fu costretta ad arrendersi ed ad affrontare ciò che fin da subito voleva evitare ed al quale non si sentiva di appartenere: il viaggio. Un'esperienza logorante, che porta in tutti i suoi tratti la fatica di riconoscere sé stessi. Un punto nel quale sorge la paura che in fondo tutto sia solo un sogno, che niente di ciò per cui si è combattuto sia effettivamente realizzabile. L'obiettivo era di arrivare al mare, il mare che Samia ammirava da lontano sin da bambina; quel mare che per lei era fonte di desiderio, ma anche di tanta insicurezza.
La guerra costituisce lo scenario predominante della storia; tutto inevitabilmente deve dipendere da quello che viene imposto dal sistema del Paese. Una realtà complicata da accettare, una realtà che è più difficile fermare che iniziare. Il libro riesce così a darci un'immagine drammatica di una parte del mondo in cui viviamo, in un periodo nel quale la guerra è un'aspra realtà quotidiana in diversi continenti. La domanda che viene spontaneo porsi è: perché? Perché tutti gli interessi vanno a confluire in una guerra? La risposta purtroppo non esiste. Il combattersi a vicenda sembra quasi il processo naturale dell'uomo, dettato dall'ignoranza, dal non conoscere; un processo per arrivare ad un equilibrio che forse è impossibile da raggiungere. Così Samia e aabe considerano la guerra come qualcosa per la quale è meglio far finta di non aver paura, per fare in modo che non diventi parte di noi stessi e ostacolo dei nostri desideri. Samia, come ognuno di noi, rincorre i propri sogni, obiettivi necessari per migliorarsi giorno dopo giorno. Un sogno alla ricerca della propria felicità e della serenità di un intero paese che lei rappresenta. Un sogno per cui combattere in ogni momento, con ogni fatica, con ogni briciolo di speranza che rimane, con la consapevolezza che non sempre può essere realizzabile.
Così Giuseppe Catozzella riesce a farci riflettere su diversi temi, su contenuti che appartengono non solo a Samia, ma anche ad ognuno di noi. Tutto racchiuso in una storia vera di una ragazza somala che combatte per il suo futuro, che lo stile delicato, dolce e sensibile dell'autore riesce a rappresentare appieno. Una storia capace di emozionare, di farci mettere una mano sul cuore ed allo stesso tempo di lasciarci tante domande nella mente. Una ragazza il quale sorriso ed desiderio sovrastano ogni cosa pur di arrivare fino in fondo, portando con sé le proprie emozioni; speranze racchiuse tutte in poche parole, ribadite da Mannaar, la nipotina di Samia, con la leggerezza che solo una bambina può avere: 'Non dirmi che hai paura' ".

Andrea Ricci

Nightmare's diary pt 1

Era l’ennesima sera tranquilla e nebbiosa, ma indubbiamente quella che Dina avrebbe ricordato di più.
Passeggiava con due amici dai volti lunghi ed ombrosi, non avrebbe saputo neanche dire i loro nomi, ma lo sapeva, lo sentiva che erano suoi amici. Di quelli veri, che si sarebbe portata dietro tutta la vita, di quelli fidati. Lo sapeva che era così. Ma in quel momento, in quella sera, non sarebbe stata capace nemmeno di dire i loro nomi.
Passeggivano lungo un viale illuminato tenuamente da vecchi lampioni. Era tutto tranquillo e silenzioso, solo i passi sull’asfalto rompevano la quiete. Ma il loro era un silenzio d’intensa. Certe amicizie non hanno bisogno di costante intercomunicazione.
Quella mattina, dopo esser usciti da scuola tutti e tre insieme, avevano deciso di percorrere una strada di ritorno alternativa, così, per cambiare.
Avevano quindi oltrepassato la scuola dal lato destro, invece che dal consueto sinistro, allungando la strada di una decina di minuti.

“No”, aveva pensato Dina, “la mamma non si arrabbierà anche se tarderò.”

Avevano attraversato un bel parco in cui i colori autunnali risaltavano: al loro passaggio, accompagnato dal vento, venivano seguiti da leggere foglioline gialle e rosse, calde dell’ultimo sole. Chiaccheravano allegramente, discorrevano di scuola prendendo in giro quel nuovo professore un pò goffo, e che forse era troppo buono per una classe come la loro. Oppure rimanevano in silenzio, ognuno assorto nei suoi perchè, nei suoi per come, nei suoi niente.
Dina continuava a cercare di focalizzarsi sul viso di uno dei due amici, ma proprio non ci riusciva. Era come se quella mattina non fosse più capace di ricordare nomi e volti. Mentre si concentrava su questo pensiero, il paesaggio aveva abbandonato il parco per dedicarsi a zone di abitazioni disabitate. Case e capannoni dai vetri rotti, macerie sui giardini, carcasse di autovetture arrugginite a fianco degli stabili, alle quali immancabilmente mancavano le ruote, i sedili, il cofano...
Erano profondamente assorti da questo paesaggio, che mostrava loro una zona surreale e sconosciuta della dolce cittadina. Possibile che non si fossero mai accorti di un posto così?
In fondo alla strada si stagliava un lungo casolare da industria, monopiano e dal tetto basso ed orizzontale. Le finestre, man mano che si avvicinarono, erano rettangolari e strette, tutte parallele e dai vetri opachi di polvere. Particolarmente curiosa era l’entrata: mancava della porta a doppio battente, era solo un buco vuoto che dava sul buio leggermente illuminato dalla luce delle finestre. Rallentarono un poco per sporgersi dalla strada e curiosare verso quella voragine.
Dina si trattenne sul marciapiede, qualcosa le suggerì di non avvicinarsi troppo.
I due amici intraprendenti avevano invece varcato il cancello aperto, si addentravano nel giardinetto di cemento, osservavano verso la porta. “Cosa gli suggerisce il cervello?” pensava la ragazza.

mercoledì 4 ottobre 2017

Le vedove immortali (di Michele Castellari)

A Imola, come ancora in tanti comuni della mia provincia, esiste l’abitudine di attaccare in più punti della città manifesti listati a lutto, contenenti i necrologi delle persone scomparse.

E’ il cifrario accorato e partecipe delle piccole comunità, in cui tutti si conoscono e in cui la morte di ognuno è ancora una notizia importante e di interesse generale, oltre che l’ultimo spunto narrativo e quasi fiabesco per quella cordiale tessitura di voci, aneddoti, sentimenti che da sempre unisce e coinvolge i luoghi in cui gli anziani prevalgono numericamente su tutti gli altri.
A Imola in genere si muore vecchi, o molto vecchi. In genere muoiono prima i vedovi delle vedove. In genere i vedovi erano già morti prima di morire, perché da vivi li vedevi aggirarsi spauriti e stonati appoggiati a un bastone o lucertolati ad un muro, come ossi di seppia tralasciati sulla riva dalla risacca della vita. Le vedove, invece, in vita emanavano ancora una specie di splendore soddisfatto, di energia tragica, che mai le distraeva un attimo da tutto quel che restava da dire e da fare, e che oggi trapassa persino nelle espressioni lucenti della loro ultima fotografia. Che è già lì a preannunciare una morte indaffarata, e lo sbarazzino sgambettio della defunta persino di là, a rassettare le stanze del nulla.
Sotto il nome del morto è riportato a volte il suo soprannome, quello con cui tutti lo chiamavano in vita e che deve servire a identificarlo immediatamente senza altri sforzi di memoria. Spesso sono soprannomi dialettali, sincopati, tronchi; a volte diminuiscono il nome proprio, a volte lo vezzeggiano, altre volte ancora lo sfotticchiano delicatamente.
In altri casi invece, anche a girarlo e a ribaltarlo in mille modi il soprannome non svela nulla del nome di battesimo e addirittura è a sua volta un altro nome completamente diverso. E in quella piccola impostura onomastica pare allora di ritrovare quegli antichi codici segreti dei gruppi ristretti dentro i gruppi più larghi in cui si scappava via dall’autorità delle famiglie, delle scuole, degli eserciti, e si provava a rifondare se stessi dentro un’identità nuova e autentica, apparentemente conosciuta solo dai propri compagni di congiura e custodita solo da loro.
A Imola, a quanto si legge sui manifesti, i funerali religiosi sono ancora più numerosi di quelli civili. A volte le celebrazioni sono annunciate in modo franco, lineare, come sigillo inappuntabile di una vita di fede e devozione: e in quei casi il nome della chiesa, le modalità della benedizione sono snocciolati dai parenti con orgogliosa fierezza e, oserei dire, con un filo di vanità.
Altre volte, soprattutto per quelli degli uomini, e soprattutto per quelli di cui si intuiscono passati anarchici, socialisti, anticlericali, la notizia del transito in chiesa della salma è data in modo imbarazzato, quasi stupefatto: questa volta il prete diventa l’intermezzo clandestino tra la sosta iniziale nella camera mortuaria per il commiato civile dal defunto e quella conclusiva al cimitero, per la sua cremazione. Lenin diceva che la religione, nella vita degli uomini, è un’acquavite spirituale. Per gli uomini imolesi verrebbe da dire che la religione diventa tale soltanto in morte, e con lei si brinda insieme agli altri sulla propria tomba, scommettendo per l'ultima volta di potere ubriacare persino Dio.
A Imola muoiono qualche volta i quarantenni, i ragazzi giovani, persino i bambini. Ne danno l’annuncio messaggi dolci e sobri che sembrano infilati in mezzo agli altri quasi per sbaglio o per un refuso grammaticale del destino, ma che subito li sovrastano e li annullano e li attirano a sé dentro un vortice di tristezza.
Mai come in quel caso il necrologio è allora la coreografia letterale di uno scandalo: la lista infinita dei congiunti, tutti più vecchi di colui che si saluta; il numero striminzito dell’età del defunto, che ingrandisce agli occhi ogni volta che lo riguardi per capacitarti di quel che leggi; la sproporzione infinita tra l’entità di un dramma incomprensibile e la povera e inutile compostezza con cui chi resta convoca gli altri all’ultimo saluto a messa. A chiedere ragione di cosa ? E perché ? E soprattutto, a Chi ? "Signore, avvicina a noi questo calice, perché questa è la Tua volontà, e non la nostra". Acquavite spirituale, come si diceva.

lunedì 25 settembre 2017

SERA D'AGOSTO

di Mirella Morara

Si prende posto
ai tavoli stabiliti
dalla sorte.
Qualcuno si alza
e tenta altrove
poi torna
e chiede a che punto
si era rimasti.
Ma le parole
sono andate oltre
libere del loro gioco.
Che ci fai qui
mi chiedi allora
con lo sguardo
Non erano altre
Le tue mete.
E' vero, rispondo
con la mano
che afferra il bicchiere.
Ma è andata così,
e sorridiamo entrambi
a questa afosa
serata d'agosto

Fonte: https://www.flickr.com/photos/36609145@N02/25089891454




sabato 23 settembre 2017

Matematica e religiosità del tennis (di Andrea Pagani)

IN OCCASIONE DEL  COMPLEANNO DEL PAGANS ECCO IL RACCONTO SUL TENNIS LETTO DURANTE IL READING LETTERARIO A PALAZZO SERSANTI A IMOLA

dedicato a David Foster Wallace
Cosa c’è di più bello che una sana partita a tennis, senza complicazioni, alla luce spensierata di un sabato pomeriggio, dopo la scuola?
È il 13 maggio 1983.
Venerdì.
Ma non è un venerdì qualsiasi.
È il venerdì dell’allenamento prima del torneo di tennis.
Il torneo regionale Fit, under 17.
Nella mia città sono già campione nella categoria juniores e mi hanno convocato per domenica mattina a Bologna. Se supero i regionali vado a Roma, ai nazionali.
L’emozione fermenta sotto la pelle, come un bruciore che mi infonde uno stato di ebbrezza ed eccitata inquietudine.
L’allenamento di oggi è decisivo.
Il coach ha parlato chiaro, puntandomi dritto negli occhi.
Devo mettere a punto alcuni fondamentali, perfezionare certi colpi, seguire la pallina col corpo, concretizzare la chiusura dello scambio.
Ok, troviamo la concentrazione.
È uno splendido pomeriggio, bagnato dai colori turchesi d’un preludio di tramonto.
Nell’aria tersa c’è un carezzevole odore di primavera, di gelsomino e fiori in rigoglio, un intreccio di suoni disparati, il rombo del traffico, lo stridio di pneumatici sull’asfalto, il cigolio di un cancello, il fruscio del vento.
Colpisco la pallina con inusitata potenza, servizio, dritto, rovescio, scendo a rete, volèe di dritto, volèe di rovescio, chiudo il punto. E poi ancora. Serve & volley. Rovescio in slice. Rovescio in back. Dritto in top. Backspin, topspin. Movimento dello swing del dritto. Servizio, dritto, rovescio.
Ma quanto sono forte!
Momenti favolosi, gravidi di trasporto, sudati di un’estasi eccezionale, ricchi di un rapimento festoso, gonfi di un’euforia che non si potrà più ripetere.
Sento tutta la libertà della mia adolescenza.
Un impeto infiammato sulla pelle, che non tornerà mai più.
Ma è solo questo?
È solo questa l’invincibile dipendenza dal gioco del tennis?
O c’è qualcosa di più profondo?


Comincio, oggi, dopo tanti anni, a capirne il motivo.
Fin da piccolo, quando imparai a giocare a tennis verso la fine dell’infanzia, a Ferrara, su un rudimentale campetto di cemento nel cortile dietro casa (un fatiscente campetto condominiale, che era messo a disposizione gratuitamente per i residenti del quartiere, con le buche per terra e una consunta rete sbrindellata), credo di aver avvertito, inconsciamente, la magica seduzione di quel gioco.
Qualcosa che aveva a che fare non solo con l’agonismo, ma anche con l’intelligenza, la matematica, il cuore, lo spirito, la religiosità.
Per vincere a tennis non basta avere talento atletico e tonica fisicità. Occorre anche una strana propensione per la matematica intuitiva.
Richiede una mente geometrica, l’abilità di calcolare le angolazioni di battuta e di risposta.
Io non ero particolarmente robusto né alto né veloce (o almeno lo ero molto meno dei miei avversari) ma possedevo quella che, tecnicamente, si chiama visione di gioco.
Col mio fisichino smilzo, un petto da piccione, un torace concavo e i polsi sottili che ci potevo infilare i braccialetti delle ragazze, facevo correre per tutto il campo il mio avversario, perché leggevo il rettangolo di gioco come un terreno di scacchi, una funzione matematica, un luogo in cui tracciare diagonali, angoli acuti, traiettorie spigolose e improbabili.
Mi sentivo a mio agio in quel rettangolo di 23,77 x 8,23 metri, coi suoi angoli precisi e gli spigoli ben tagliati. Sentivo di dominarlo.

venerdì 22 settembre 2017

Riflessioni sulla scrittura

Quando iniziai a scrivere, avevo undic'anni. Scrivevo per me, non per gli altri, e in breve tempo dalla mia iniziazione alla scrittura, mi colse un pensiero.
Sentivo come scrivere, esattamente come il fine del teatro in Grecia, aveva una funzione catarsica su di me.
Da qui la riflessione: ogni forma d'arte scaturisce da un' emozione piccola o grande che scompensa l'equilibrio interno di chi la produce. Scrivere, Dipingere, Fare poesia e musica (le metto insieme non a caso): ognuna di queste nasce da un'artista che può esserlo per un'ora o una vita, di professione o di nascosto, di qualsiasi forma... Ma non è la qualità dell'arte prodotta a fare l'artista: non mi reputavo un'artista a undic'anni, e men che meno ora. Sorrido.
Una grande felicità, un forte dolore, un ricordo che riaffiora carico di sentimenti passati, una speranza o paura per il futuro, tutto tramortisce il nostro leggero equilibrio e scompensa l'energia che da qualche parte dovrà uscire.
La creazione: le emozioni sono a-spaziali e a-temporali, sono qui ed ora (qui dove? e ora quando?) hic et nunc dentro noi. E poi diventano suono inciso graficamente, armonia riproducibile in ogni istante, diventano parole fisiche, oscuri simbolini tutti allineati su fogli e file, disegni e colori, immagini che lo sguardo, la lettura e l'ascolto riproducono. Arte è dare spazio e tempo all'Emozione. Per un'ora, per una vita,un uomo o una donna decidono di essere i creatori di una parte di sé.
Dare vita ad un'emozione è arte, a prescindere che sia per sé stessi o per gli altri. Ancora più affascinante è il fatto che ad ogni lettura, ad ogni lettore, l'immagine è diversa, cambia il significato e la sensazione. Ed è forse anche per questo che a volte scriviamo solo per noi stessi.

Ultimamente seguo molto il nostro nuovo e freschissimo blog, pullulante di voci così diverse, ed ecco che mi ritornano alla mente le riflessioni che facevo quando ero ancora una bambina, stupendomi a leggere una poesia o un pensiero di uno di noi, realizzando che ciò che vedrò io molto probabilmente non era quello che voleva essere mostrato. Sorrido quindi, leggendo una seconda o terza volta, vedendo scorci nuovi, cercando di indagare il vero significato di quella Creazione.

E.T.- Eva Tondini

La cura di se e dell'altro

Fonte: Henry McCaliend (profilo Facebook QUI)
SABATO MATTINA
per tutti gli interessati alle problematiche della cura dei malati di alzheimer e quelle che riguardano i parenti di persone colpite da questa triste malattia, si svolgerà questo evento che davvero affronterà tutti i temi più importanti.
Siete tutti invitati se interessati al tema.



Sono nata a settembre (di Maria Mancino)

Maggie
Quando sono nata io
le mamme erano bambine nascondevano la bellezza e gli anni con fazzoletti legati dietro al collo

Quando sono nata io le altalene dondolavano legate agli alberi
come in tutte le stagioni

Quando sono nata io l'aria profumava di campi arati freschi
di panni stesi al vento
di pane sfornato all'alba

Quando sono nata io era settembre
sul ciglio delle strade tra i rovi pungenti c'era ancora qualche mora

Maggie

Sono nata qui

mercoledì 20 settembre 2017

Il viaggio

Il viaggio

Ho preso la mia barca e all’alba sono partita
Nessuno mi ha veduto 
la spiaggia era deserta
soltanto un marinaio dormiva sulla sabbia
Ho preso la mia barca e in mare sono andata
ho preso la valigia perché pesava troppo 
lì dentro c'era tutto
La mia camicia bianca con la scritta “falsità”
Il mio maglione a righe con su stampato ” devi”
I miei foulard a fiori 
serviti a mascherare tutti i miei pregiudizi
Ho messo anche la rabbia avvolta dentro ad un telo
Nel fondo vi ho incastrato tutte le colpe e i jeans
Infine vi ho infilato tutte le scarpe rotte
colpevoli di aver portato a spasso
per anni la paura
Un tonfo e la valigia nel mare è sprofondata
Adesso sono nuda
il sole mi accarezza
Leggera ora è la barca la culla la marea
che mi riporta a riva
Ho preso la mia barca e in mare sono andata
Ho preso la mia vita e a riva sono tornata

E' sveglio il marinaio

Maggie






domenica 17 settembre 2017

I poeti scrivono nella stagione della malinconia

I poeti stemperano le parole con i sogni
le sensazioni le impregnano di illusioni e
scrivono
Vagano nelle incertezze
si perdono nelle tormente
e nudi sotto la pioggia
scrivono
I poeti scrivono nella stagione della malinconia
muoiono come le foglie poi
si pitturano il volto di nostalgia
Annegano dentro ad un ricordo poi
riaffiorano nella follia
I poeti non ha colpe…scrivono
I poeti hanno sempre un alibi
La poesia
Maggie






venerdì 15 settembre 2017

E VIENE LA SERA

E ti trovi la sera con un bisogno di scrivere senza sapere bene però cosa scrivere.
Bisogno è la parola giusta. Una strana voglia di riempire lo spazio bianco nel foglio, anche con idiozie se necessario. L’impulso di aprire il computer e cominciare a pigiare i tasti e formare sillabe, parole, frasi, fino a formare un pensiero o una storia.
Forse è proprio questo che fa di noi degli Ippogrifi: la voglia di riempire un foglio bianco!
E forse è questo che differenzia uno scrittore da una persona che scrive.
Il foglio bianco diventa un amico, un confidente, un essere prima inanimato a cui le nostre parole danno vita e senso.
E scriviamo per noi stessi, per nutrire la nostra anima, perché una volta iniziato a scrivere  è difficile smettere.
Scrivere è una droga!
Io sono stata in astinenza per troppo tempo e ora la mia anima anela la sua dose!
Daniela Galassi  


Blady nelle mura d'acciaio

Era stata dalla parrucchiera, la signora Margot, e tutta impettita attraversava il parco tenendo stretto il guinzaglio del suo bulldog, che avrebbe voluto scorrazzare qua e là. «Piano, piano Renoir» diceva al suo cane guardandosi intorno e cercando di richiamare l’attenzione degli altri ospiti del parco.
Blady se ne stava come tutti i giorni in giro nel parco. Era un vagabondo, era un vagabondo felice, quella mattina saltellava da un posto all'altro e cantava la solita canzone con il solito ritornello: «Cri, cri... e cri».
Blady godeva di un forte rispetto nel suo mondo di grilli incantati! Le grille… no, anzi, i grilli femmina l'amavano e lui le conquistava tutte, addolcendo il suo frinire e facendosi fare la corte. Saltò dalla siepe alla panchina e poi su un oleandro; poi tentò di arrivare fino alla cima di un piccolo alberello in fiore, ma... aiuto! perse l'equilibrio e giù, si sentì catapultare in mezzo ad una giungla, impigliato tra tantissime liane, avvolto da un viscido olio profumato, e quando riaprì gli occhi...
(Perché li aveva chiusi? Un po’ era fifone il baldo grillo patron del parco!)
«Ma dove cribbio sono? Ma che piante sono questi orribili intrecci?» si chiese Blady mentre si dimenava per riuscire a liberarsi, poi un sussulto comincio a scuoterlo.
«Ommioddio, ma cos'è, il terremoto? Renoir, Renoir, ora che ci siamo un po’ riposati ci incamminiamo verso casa» disse Margot portandosi la mano alla testa per evitare che il vento scompigliasse la gonfia pettinatura. «Li voglio tutti cotonati» aveva detto alla ragazza in salone, quando era stato il momento di farsi la piega. «Come se tutto quel cespuglio in testa servisse a farla diventare più bella» aveva commentato la ragazza senza farsi sentire. La signora Margot ondeggiava continuando a guardarsi intorno, mentre piano si dirigeva verso il suo appartamento in via Luxemburg, a pochi passi dal parco.

giovedì 14 settembre 2017

Cinofilia applicata all'uomo (di Eva Tondini)

Fonte foto: Eva Tondini
Quando scegli un cane, tu lo scegli. Lui in realtà non ti vuole, di te non se ne fa nulla (non ancora...) e resterebbe non sempre felice, ma nella sua quotidianità. I cani adorano la quotidianità. Quindi quando scegli un cane, tu scegli lui ma lui non sceglie te. Resterebbe volentieri nella sua gabbia, oppure coi suoi fratelli e sua madre, ed invece tu lo porti via.
Per  i primi tempi non c'è ancora fiducia, così se il cane morde non dovrebbe stupire nessuno.
Si può fare lo stesso paragone con le persone: quando inizia un nuovo rapporto, amicale amoroso o qualsiasi voglia, non c'è ancora fiducia. Se uno fa un torto al secondo, non c'è questa grande delusione.

La storia insegna
Poi avviene la magia: la fiducia. Ed ecco che la tua scelta viene ricambiata, anche tu sei stato scelto dall'animale. Così due persone si fidano l'uno dell'altro.
E il cane smette di morderti. Se in futuro lo farà tuttavia, ci rimarrai malissimo. Molti dopo situazioni del genere, a volte attuatesi a causa dell'ignoranza della parte umana, decidono di sopprimere l'amico perchè aggressivo, mordace; decidono di rompere il rapporto perché la delusione è troppo grande, ed il dolore con lui... meglio rinunciare.
Se invece il sentimento del legame è forte, si va avanti. Ma (c'è sempre un ma) si instaurerà diffidenza: su dodici anni di vita media dell'animale, magari lui ti avrà morso una volta sola dopo cinque che era con te, e per gli altri sette sarà sempre un ottimo cane fedele e rispettoso. Tu, tuttavia, resterai sempre un po' sull'attenti, sul chi vive, per il resto della sua vita, per il resto del vostro rapporto, memore di avere al tuo fianco un cane o una persona "che morde".

Il perdono
Le prime volte al parco, le prime esperienze insieme, i primi errori intrinseci dell'altro a cui chiedi cambiamento. Il cane scappa. Un classicone. E tu che fai? Lo chiami, ovvero vieni, torna sui passi del tuo errore. Lui non ti risponde. Lo richiami, inizi ad essere arrabbiato. non torna. Lo chiami di nuovo e sai che questa volta se non tornerà la tua rabbia sarà irreversibile. E lui non torna. Allora lo insegui, e dopo lunghe fatiche fisiche lo punisci con violenza.
La situazione si  ripete. Altro giorno al parco, altre  nuove esperienze, sempre i soliti errori.
Chiamata numero uno, e non torna; inizia la rabbia. Chiamata numero due, non torna, sempre più nero. Chiamata numero tre e la pazienza si è ormai vaporizzata, sei cieco di furore, già pronto ad alzare le mani e corrergli dietro e... puff! Magia, lui torna. Che fare? Sfogarsi lo stesso? No. Il figliol prodigo  va premiato, per quanto tu vorresti sfogarti. Non importa quanto tardi torna il cane o la persona dal suo errore, ma se lo fa di sua sponte, il premio è d'obbligo per instaurare quel feedback positivo per cui indubbiamente ripeterà ancora l'atto, ma tornerà sempre prima, fino a che ci vorrà solo un richiamo, o ancor meglio non si allontanerà affatto.
Siamo tutti cani in questo. Ma l'ammissione volontaria del proprio fallo e il saper tornare anche quando l'altro è folle di rabbia, è un gesto di coraggio. E il coraggio si premia sempre col perdono.




martedì 5 settembre 2017

"Micol e altro" (di Michele Castellari)

Dominique Sanda
Nell'adolescenza ognuno ha diritto alle sue perversioni immaginifiche: la mia fu quella di desiderare di essere ferrarese. Perché solo così avrei potuto godere appieno della topografia sentimentale dei romanzi di Giorgio Bassani. Le genealogie familiari, indecise tra la rievocazione storica e il virtuosismo da portineria; le mura antiche come nervatura pedagogica di una città, che a un bolognese evocano solo il dolore di avere perduto la propria; il ritmo ciclabile di un'attitudine esistenziale, che di quel mezzo di locomozione ha la pazienza e la frenesia; le malizie e le disperazioni di un'inquietudine assorta a metà strada tra Ferrara e la luna, come in quella poesia di Borges.

Micol Finzi Contini, protagonista del romanzo più noto di Bassani, è stata il grande amore letterario dei miei sedici anni. E il paradigma morale di quella ragazza, leggiadra e volatile come una farfalla un attimo prima di scendere muta nel gorgo dei campi di concentramento, me lo sono portato dietro per sempre: il senso dell'attesa come indolenza e come presagio, come pulsione e come perpetua inettitudine a darle un compimento (Vittorio De Sica, nel film tratto da quel romanzo, seppe ambientare magnificamente il racconto negli irreali giardini di cristallo di una comunità ancora sospesa e dimentica dell'orrore che le si stava compiendo attorno. E indovinò anche l'interprete di Micol, restituita nelle fattezze ridenti e fuggitive di Dominique Sanda. Ma ne mancò totalmente la resa cinematografica: una ragazza misteriosa, sensuale, ineffabile, malamente tradotta nella banalità carnale di una maliarda precoce e capricciosa).
Il Gruppo 63, simpatica e sopravvalutata congerie di Franti del pensatoio critico italiano, a un certo punto cannoneggiò senza pietà la letteratura di Bassani, accusandola di essere una variante appena più licenziosa ed evoluta di quella di Liala. Scemenza dispettosa di cui si sono perse le tracce e che ebbe comunque la sua pronta nemesi, tanto che anche i franchi tiratori di quel pensatoio, come nella profezia di Barthes, furono ben presto richiamati all’ordine dal medesimo sistema di cui si illusero di essere iconoclasti. Umberto Eco si rifugiò nella narrazione furba e vagamente fraudolenta del Medioevo sessuofobo e inquisitorio. Angelo Guglielmi si ingegnò a lialeggiare su Raitre gli intrecci sanguinolenti o pettegoli dei telefoni gialli e dei chi-li-ha-visti, Edoardo Sanguineti...no, Edoardo Sanguineti rimase invece fedele a se stesso, continuando a scrivere brutte e spocchiose poesie algoritmiche, come trent’anni prima.

Giorgio Bassani, al culmine del suo epos cittadino, nel frattempo scriveva il suo romanzo più bello, L’airone, che è il meno ferrarese di tutti (anche le perversioni adolescenziali prima o poi si fanno una ragione della loro caducità). La giornata di un ricco avvocato che fa una battuta di caccia in compagnia di amici tra le paludi del delta del Po e intanto, stanco di tutto, medita il suicidio. Risoluzione che deciderà di portare a compimento non appena scorgerà nella vetrina di una bottega alcuni uccelli impagliati: volendo raggiungere al più presto la loro imperturbabilità composta, la loro disseccata pacificazione.
Potrei concordare col Gruppo 63 solo su un punto: che la letteratura di Giorgio Bassani presenta effettivamente una specie di acerba incompiutezza, di approssimazione torbida che ha sporadici tratti da romanticismo glamour un po’ d’antan. Una certa aristocrazia della sofferenza, chiamiamola così, che alla ragione veduta di un senno maturo può talora disturbare, o apparire eccessiva. Ma forse proprio per questo resta ancora una letteratura vivida, evocativa, capace di riempire miracolosamente gli spazi narrativi di un genere letterario forse già al tramonto (e spesso proprio il tramonto fisso e didascalico di una cartolina).
Come avrebbe chiosato lo stesso Bassani, che fu anche insospettato e grande poeta,
“Cosa mi ha indotto dunque durante la notte ad abbandonare lo spazio del suo grande corpo assente se non l’ansia d’essere anche io niente?“
Michele Castellari

Dominique Sanda


Tempi postmoderni. "Pier Vittorio Tondelli, Rimini" (di Marco Marangoni)

Per spiegare la ragione per la quale Rimini è, oggi, un romanzo da leggere, dovrei pormi prima una domanda: cosa rende un romanzo davvero ‘moderno’? La risposta, più o meno, credo sarebbe: la rappresentazione della complessità ‘globale’ con la quale quotidianamente ci confrontiamo ormai da decenni, complessità profonda, non schiacciata sul primo piano, non superficiale, sostanziata di memoria. In questa prospettiva, nell’oltre-Duemila, leggiamo i nostri ‘classici’: De Lillo, Wallace, Ford, Perec, Marìas, e così via.

Rimini, uscito nel 1983 per Bompiani, più volte ristampato, non fu collocato all’epoca in questo orizzonte, che pure cominciava a sorgere; romanzo ‘generazionale’, invece, ‘giovanilistico’, ‘disimpegnato’: erano questi gli attributi che una critica poco lungimirante gli aveva imposto, intesi quasi come dei marchi d’infamia. In altre parole, opera di ridotte aspirazioni in rapporto alla realtà nuova degli anni ‘80 (già ‘disorientata’) ma best seller di esagerate ambizioni in termini di mercato e di mainstream italiano, allora già ampiamente praticato (in versione iper, dal 1980, con Il nome della rosa di Eco). A 34 anni di distanza un critico giudizio di valore da parte del lettore volge in tutt’altra direzione ed è di carattere più marcatamente formale, svicolato dalla visione del mondo e dall’etica dell’autore. Sono molto evidenti infatti le fragilità di carattere strutturale e in certe scelte linguistiche. I diversi fili narrativi presentano passaggi poco verosimili, affrettati; alcuni personaggi risultano troppo stilizzati, meramente funzionali, rispetto al loro ruolo nel romanzo. Il linguaggio cerca un livello medio sfiorando spesso la banalità (<<“Voglio fare l’amore con te”” disse, stringendola. Beatrix sorrise. Lo desiderava. Lo avrebbe desiderato tante altre volte con lo stesso entusiasmo. Si sentiva amata e lo amava.>>), a volte sintetico, ‘giornalistico’, a volte puramente referenziale (di facile traducibilità per i mercati esteri?). Soprattutto, si avverte in molte pagine (non in tutte) la mancanza di uno shining degno di Altri libertini (1980) nel lessico connotato e nelle metafore, adeguato agli spazi iper- e post- della Riviera. Desidero metterlo subito in chiaro per non sembrare un ‘tifoso’: Rimini costituisce una sorta di torre di Babele incompiuta, un’occasione mancata. Una bella occasione, però, e una torre ben concepita, da un punto di vista architettonico. Se lo diciamo noi, i posteri, significa che la voce del romanzo ha superato i limiti degli ’80 (smentendo l’etichetta di comodo ‘generazionale’), e che ancora comunica e ci interroga sul tempo presente.

La trama di Rimini è costituita da sei fili narrativi sviluppati nello spazio del ‘divertimentificio’ degli anni ‘80. Il primo è ‘doppio’: a) le vicende del giovane giornalista ‘rampante’ nominato direttore dell’inserto ‘vacanziero’, redatto a Rimini, di un grande quotidiano di Milano; b) la morte in mare di un senatore sulla quale indaga il giornalista medesimo ( la sua grande occasione per fare carriera); poi ci sono la storia sentimentale e autodistruttiva di uno scrittore, quella di due giovani ‘cinematografari’ che in spiaggia (da un ombrellone all’altro!) chiedono ai bagnanti i contributi per realizzare un film, quella del sassofonista di night-club attratto da una vicina di casa (di residence, dovrei dire: siamo a Rimini), quella infine di Beatrix, una donna tedesca alla ricerca della sorella, fuggita in Italia e ritrovata, alla fine di un lungo viaggio, dentro il parco di Fiabilandia (sempre Rimini).

I sei percorsi si svolgono in apparente contemporaneità: solo al termine del libro si scopre che uno precede gli altri; essi comprendono inoltre dei flashback e si alternano all’interno del romanzo ad altre due parti a se stanti, Pensione Kelly e Hotel Kelly, storia esemplare (ma ‘nera’) di una famiglia romagnola in progress grazie al boom del turismo (una sorta di Malavoglia alla rovescia).
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