IN OCCASIONE DEL COMPLEANNO DEL PAGANS ECCO IL RACCONTO SUL TENNIS LETTO DURANTE IL READING LETTERARIO A PALAZZO SERSANTI A IMOLA
dedicato a David Foster Wallace
Cosa
c’è di più bello che una sana partita a tennis, senza complicazioni, alla luce
spensierata di un sabato pomeriggio, dopo la scuola?
È il
13 maggio 1983.
Venerdì.
Ma
non è un venerdì qualsiasi.
È il
venerdì dell’allenamento prima del torneo di tennis.
Il
torneo regionale Fit, under 17.
Nella
mia città sono già campione nella categoria juniores e mi hanno convocato per
domenica mattina a Bologna. Se supero i regionali vado a Roma, ai nazionali.
L’emozione
fermenta sotto la pelle, come un bruciore che mi infonde uno stato di ebbrezza
ed eccitata inquietudine.
L’allenamento
di oggi è decisivo.
Il
coach ha parlato chiaro, puntandomi dritto negli occhi.
Devo
mettere a punto alcuni fondamentali, perfezionare certi colpi, seguire la
pallina col corpo, concretizzare la chiusura dello scambio.
Ok,
troviamo la concentrazione.
È
uno splendido pomeriggio, bagnato dai colori turchesi d’un preludio di
tramonto.
Nell’aria
tersa c’è un carezzevole odore di primavera, di gelsomino e fiori in rigoglio,
un intreccio di suoni disparati, il rombo del traffico, lo stridio di
pneumatici sull’asfalto, il cigolio di un cancello, il fruscio del vento.
Colpisco
la pallina con inusitata potenza, servizio, dritto, rovescio, scendo a rete,
volèe di dritto, volèe di rovescio, chiudo il punto. E poi ancora. Serve &
volley. Rovescio in slice. Rovescio in back. Dritto in top. Backspin, topspin.
Movimento dello swing del dritto. Servizio, dritto, rovescio.
Ma
quanto sono forte!
Momenti
favolosi, gravidi di trasporto, sudati di un’estasi eccezionale, ricchi di un
rapimento festoso, gonfi di un’euforia che non si potrà più ripetere.
Sento
tutta la libertà della mia adolescenza.
Un
impeto infiammato sulla pelle, che non tornerà mai più.
Ma è
solo questo?
È
solo questa l’invincibile dipendenza dal gioco del tennis?
O
c’è qualcosa di più profondo?
Comincio,
oggi, dopo tanti anni, a capirne il motivo.
Fin
da piccolo, quando imparai a giocare a tennis verso la fine dell’infanzia, a
Ferrara, su un rudimentale campetto di cemento nel cortile dietro casa (un
fatiscente campetto condominiale, che era messo a disposizione gratuitamente
per i residenti del quartiere, con le buche per terra e una consunta rete
sbrindellata), credo di aver avvertito, inconsciamente, la magica seduzione di
quel gioco.
Qualcosa
che aveva a che fare non solo con l’agonismo, ma anche con l’intelligenza, la
matematica, il cuore, lo spirito, la religiosità.
Per
vincere a tennis non basta avere talento atletico e tonica fisicità. Occorre
anche una strana propensione per la matematica
intuitiva.
Richiede
una mente geometrica, l’abilità di calcolare le angolazioni di battuta e di
risposta.
Io
non ero particolarmente robusto né alto né veloce (o almeno lo ero molto meno
dei miei avversari) ma possedevo quella che, tecnicamente, si chiama visione di
gioco.
Col
mio fisichino smilzo, un petto da piccione, un torace concavo e i polsi sottili
che ci potevo infilare i braccialetti delle ragazze, facevo correre per tutto
il campo il mio avversario, perché leggevo il rettangolo di gioco come un
terreno di scacchi, una funzione matematica, un luogo in cui tracciare
diagonali, angoli acuti, traiettorie spigolose e improbabili.
Mi
sentivo a mio agio in quel rettangolo di 23,77 x 8,23 metri, coi suoi angoli
precisi e gli spigoli ben tagliati. Sentivo di dominarlo.
Ad
esempio, se il mio avversario serviva una palla tagliata esterna e accennava ad
una discesa a rete, io dovevo pensare in anticipo, con estrema rapidità e
decisione, e scegliere su una serie n di
colpi, dove n è una funzione
iperbolica limitata dal seno della bravura dell’avversario, con quale colpo
rispondere: se tentare un lungolinea dalla parte opposta, se riuscire in una
smorzata così da mettergliela sui piedi, se provare un contropiede, se alzare
un pallonetto tagliato e rasente alla sua testa da scavalcarlo e non
consentirgli l’attacco.
Insomma,
se non riesci a leggere lo schema di gioco con un’attitudine matematica, è
meglio se ti dai all’ippica.
Ma è
anche un terribile gioco di mente e di cuore.
Tu
sei da solo in campo. Non hai neppure il coach che ti rassicura.
Sei
lì, da solo, a decidere, a fare i conti coi tuoi nervi, a controllare le emozioni.
Devi
essere consapevole dei tuoi limiti e delle tue risorse, di quanto rischio puoi
prendere in uno scambio medio-lungo a fondo campo: posso resistere ancora? Devo
chiudere il punto? Devo tentare una palla corta o reggo sulla linea di fondo?
Devo invertire la diagonale di gioco?
Solo
tu, lì da solo, puoi dare una risposta a queste domande, tant’è che
l’avversario, alla fine, dall’altra parte del campo, non è più una precisa
persona. Diventa invisibile. Così che tutto si trasforma in un gioco contro te
stesso. Coi tuoi limiti, con le tue risorse, col tuo cervello.
Un
tremendo gioco mentale.
Ma
c’è ancora altro.
C’è
ancora l’aspetto spirituale del tennis, la sua religiosità.
Quello
che vorrei definire il momento
dell’essere.
Ci
sono situazioni, quando scopri un buco nel campo avversario, individui la
traiettoria che può prendere la pallina se s’infila in quel corridoio e senti
che stai chiudendo il punto, ecco situazioni in cui sei colto da una vertigine,
il sangue ti arriva alla testa, le pulsazioni ti martellano le tempie, un
brivido ti scivola giù per la schiena. E ti vedi da fuori. È un momento in cui
tutto si ferma. Una illuminazione fuori dalla storia. Un incontro fra tempo ed
eternità.
Sono
passati molti anni da allora.
Ho
dovuto abbandonare il tennis agonistico, dopo i vent’anni, per dedicarmi ad un
altro insopprimibile richiamo.
Una
urgenza che bruciava e non potevo rinnegare.
E in
questi anni ho provato a spiegare al tennis (che non è un gioco, ma una
creatura, un’entità vivente) ho provato a spiegargli che anche nella scrittura
esistevano le stesse meraviglie: il fascino per la matematica, l’abilità della
mente, il palpito del cuore.
C’era
la stessa religione.
La
stessa idea dell’attimo come unità fondamentale che contiene la pienezza della vita.
Ma
il tennis non mi ha mai perdonato.
E
aveva ragione. Una vocazione non va mai tradita.
Va
sempre religiosamente coltivata.
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