martedì 11 dicembre 2018

Lavami

Fotografia di Stefano Soglia
Lavami delicatamente,
non con un tubo ma con una carezza di spugna.
Non mi toccare, non perché ti odio ma perchè se no vorrò rilavarmi.
Non mi legare, sciacquami dei legami che mi ammanettano alle mie paure.
Amami piano, senza toccarmi, amami perché sono umano.

Eva Tondini

sabato 8 dicembre 2018

Oggi è un giorno di pioggia

Fotografia di Stefano Soglia

Oggi è un giorno di pioggia.
Lo stillicidio di una goccia scava nelle pareti concave del mio cervello.
L’eco cupa dei miei passi rimbomba nel vuoto della stanza.
Guardo fuori, attraverso la ruggine ruvida delle grate.
Faccio vagare lo sguardo lontano,
lungo la linea grigia dell’orizzonte.
Mi manca il fiato, non riesco… un muro imprigiona il mio volo.
Il panico mi attanaglia, mi soffoca, mi ghermisce alla gola,
con gli artigli di un rapace mostruoso.
Se c’è qualcosa di diverso, di sbagliato in me, è solo la nostalgia
di una vita che non ho vissuto.



martedì 4 dicembre 2018

Le sbarre, le vedi, ma sono dentro

Le sbarre, le vedi, ma sono dentro
il freddo, i muri
a portare sicurezza alle case
convinzione ai pensieri,
rimedi facili,
a far sentire la ragione
tutta dalla stessa parte,
a difendere presunte normalità
ad alzare la voce
a sfoggiare la forza, o il diritto…
ma escludere gli altri è come elidere un senso
e così un vuoto
inesorabile
procede, s’impone e devasta.
Le certezze, per favore, non ti siano compagne.
Abbi un dubbio almeno:
potrà salvare un volto, un sorriso, una vita,
anche la tua.

Maurizio Bacchilega

Fotografia di Stefano Soglia



giovedì 29 novembre 2018

Pittore siderurgico

Fotografie di Stefano Soglia
Non ricordo di preciso perché sia finito qui, tra questi muri di gomma… se provi a saltarci sopra, ti respingono a terra; se ci porgi l’orecchio, senti gli echi delle tue vibrazioni interiori; se ci dai un pugno sopra, resta la tua impronta, come la mano del miscredente nella Grotta del Turco della Montagna Spaccata di Gaeta… non ci sono mai stato, però, se alla morte di Gesù le viscere della Terra tremarono, anche la mente umana si può squarciare per un evento straordinario che irrompe come un coltello… i coltelli sono esistiti fin dal Paleolitico, al massimo hanno cambiato materiale: dalla selce e dall’avorio, al ferro e all’acciaio, fino a quelli di ceramica… tutti, però, con la stessa funzione: tagliano. Tagliano cibi, parole, pensieri, vite, lobi delle orecchie, tele come quelle di Fontana, in cui puoi ficcarci l’occhio dentro e immaginare l’aldilà, entrare in quel varco e cogliere quel senso d’indicibile segreto…

Proprio così: ci tengono chiusi qua, ma non sanno che noi siamo in grado di andare al di là tutte le volte che vogliamo.

Fotografie di Stefano Soglia
Per quanto mi riguarda lo faccio con la pittura. Di solito ad un violento cromatismo affido i vortici del mio animo, ma stavolta ho ingoiato i colori per fare un dipinto metallico. Perché non voglio che si veda. Voglio che si senta… Lo sentite il fragore del mare che gonfia le sue onde d’alluminio? mentre il cielo resta muto con la sua faccia di bronzo? E il frullo delle ali vi smuove i reni? Sì, perché un po’ lo temete quel becco, tagliente anch’esso come una lama spinta a velocità, diretto a ridurre la distanza siderale a cui siete assuefatti. Nel vostro mondo “normale” vivete privi di notti stellate, privi di de-sideri. Ma sentite il dipinto e lasciate andare, lasciate che sia.

Paola De Simone

sabato 24 marzo 2018

Nell'attesa

Piove sul mio cuore che batte

I battiti sono in vantaggio

...e corrono senza aspettarmi

Stretta nello scrosciare della pioggia

perdo ogni sentiero che mi riporta a me

Chiudo gli occhi e mi lascio trascinare

dalla tempesta che placherà ogni attesa

...io saprò aspettare

Perché la vita fa doni quando non te lo aspetti!

giovedì 25 gennaio 2018

Ti cerco

stanotte

nel buio

Seguo il mio respiro

che é fermo in alto

tra la gola e il petto

Ti cerco

stanotte in noi due

Ho bisogno delle tue parole

Salgo... nel mio animo in tempesta

Ti sento

Raccolgo le parole

come si raccolgono i fiori

senza recidere lo stelo

Stringo il profumo dei tuoi versi

Odorano di te anche le morbide coperte

Sei appena nata a portare via la mia inquietudine

POESIA
Maria Mancino (Maggie)

Fonte foto: QUI


Come fiori selvatici

Verranno le illusioni ad aprire le finestre della stanza vuota

Saranno come fiori selvatici

Nel loro profumo getterò le attese

Fermerò gli istanti e i giorni affinché tutto diventi vero

pronuncerò parole nuove

in un silenzio che

saprà ascoltare

saprà tacere

saprà dimenticare

Nascosta è in lui la mia follia
Maria Mancino (Maggie)
Fonte foto: QUI

Anelli d'oro

Mi aggrappai alle pareti scivolose del tempo

Nella fatica d'anelli le mie dita si coprirono

Anelli d'oro

Luccicanti

Su mani che stringevano

Il possesso dei miei anni

...nella caduta mi accorsi

che aggrapparmi era servito a farmi cadere

Maria Mancino (Maggie)
Fonte foto: QUI

martedì 23 gennaio 2018

Tempi postmoderni. Chi ha ucciso Laura Palmer? Pascoli lo sa

David Lynch (Wiki QUI)
Per comprendere la ragione per la quale Giovanni Pascoli (1855-1912) fosse fan appassionato della serie televisiva I segreti di Twin peaks (1990),di David Lynch e Mark Frost (in Italia, I segreti di Twin peaks, in onda ogni mercoledì su Canale 5 dal 1991 al 1994), si deve compiere un doppio sforzo memoriale. Il primo, facile e al tempo stesso complicato: quello di ritornare all’alba del nono decennio del secolo scorso, al pop di quella narrativa (elaborata da media diversi). Il secondo, difficile perché rimasto proprio sul fondo scuro del passato di ciascuno di noi, privo di ulteriori sviluppi nella vita dell’italiano comune, il recupero di un testo di Pascoli, il poemetto Digitale purpurea (1898), presente ancora oggi in molte antologie scolastiche.


  • Memoria n.1
Il lettore di esperienza ricorda forse, del mainstream dei ’90 italiani, il romanzo ‘neostorico’ basato sul modello de Il nome della rosa di Umberto Eco (1980), un romanzo già global perché vi si cimentavano autori provenienti da tradizioni diverse; le esperienze degli scrittori riuniti sotto la definizione (di comodo) di gioventù cannibale (Ammaniti, Vinci, Nove. . . ); e infine, vado a memoria, una nuova scuola di giallisti decisamente inclinati verso il noir e la caratterizzazione locale e temporale delle vicende da essi raccontate, legati a modelli poco canonici, come Simenon o Scerbanenco (parliamo di Lucarelli, Rigosi, Machiavelli, Camilleri. . . ).

Tra i caratteri comuni di queste correnti, solitamente premiate dal marketing editoriale, c’era, oltre ai giochi di citazioni, i richiami ad altri libri o a film, l’evidenza delle cose. L’evidenza, evidentia nella retorica latina, consente allo scrittore di raccontare le cose come se esse si svolgessero, in tutta chiarezza, sotto gli occhi del lettore: ce lo insegnano, più o meno con queste parole, i luminari della retorica come Dionigi di Alicarnasso o Cicerone. Perché la pagina abbia il sapore dell’evidentia ci deve essere l’effetto della mimesi e quindi l’ordine generale, il frame, all’interno del quale inserire una grande quantità di particolari. Per fare un esempio, se Lucarelli scriveva <<Bologna,1948>>, dove si ambientava qualcuna delle vicende del suo commissario De Luca, sulla pagina dovevano apparire il portico, la freccia dipinta sulla colonna, puntata verso il più vicino rifugio antiaereo, ormai dismesso, il dottor Tale che esce dal civico 14 con la famiglia per andare a Messa, spiando sulla porta le gambe della domestica ventenne (da Castiglione dei Pepoli), i due poliziotti ex OVRA, all’ingresso del civico 16 dove c’è una casa di tolleranza frequentata da politici e burocrati di media categoria.

La scrittura mainstream funzionava (funziona ancora) in questo modo, poteva orientarsi sul mistery, ma attribuiva comunque alle cose il loro significato ‘storico’: ciò che erano veramente state, il loro ruolo all’interno di un contesto definito. Erano cose (tante cose) al loro posto. Non è un caso che questa scrittura fosse supportata da uno studio spesso non superficiale di Storia e costumi. Il lettore leggeva e allo stesso tempo assisteva a un film. Twin peaks, in questo contesto, era la serie che cadde sulla Terra.

Una giovane donna dai tratti asiatici si guarda allo specchio mentre si trucca. Muta l’inclinazione del volto e degli occhi per osservarsi meglio. Cambia la scena: un signore di mezza età, basso, rotondo, con i baffetti (proprio un tipo normale) vestito da pescatore (e in effetti porta con sé la canna) saluta una donna con i capelli rossi e esce di casa. Mentre cammina sulla strada per raggiungere la discesa verso il fiume si sente un suono a metà tra un allarme e una campana, però in sordina, senza che si possa capire da dove provenga. Accompagnato dunque da questo suono, il pescatore (ma lui lo sente?) raggiunge la sponda del fiume. Si arresta, però, vedendo un involucro di cellophane che nasconde una ‘cosa’ scura, allungata: lo spettatore, già istruito dai trailer in onda da settimane, sa che si tratta di una figura umana. Siamo a Twin peaks, cittadina cresciuta ai piedi di una coppia di montagne quasi identiche tra loro (da cui il nome, ‘Picchi gemelli’).

Questi sono, più o meno, i primi due minuti dell’episodio pilota di Twin peaks (diretto personalmente da Lynch), i primi due minuti di narrazione, intendo, perché prima c’era stata la sigla di apertura, nella quale si alternavano immagini naturali, boschi, fiumi e relativa fauna) e immagini di macchine industriali (non paurose o incombenti, operose, piuttosto, scorci di una tranquilla vita di lavoro). La logica narrativa che reggeva la situazione nel suo complesso era intuibile ma non evidente.

Dire che lo spettatore (io per primo) incapace di connettere secondo rapporti di causa-effetto i diversi momenti del racconto, subiva sin dai primi istanti l’effetto del disorientamento, sarebbe affermare un’ovvietà (quanti romanzi o film cominciano allo stesso modo?). Bisognava studiarseli, quei due minuti. Lynch e Frost elaboravano i salti logici, le incongruenze, in termini minimali, calandoli negli interstizi più trascurabili del quotidiano, rendendoli morbidi e al tempo stesso allusivi. La donna allo specchio ripeteva un’azione compiuta ogni giorno da milioni di altri individui, e tuttavia la manieristica varietà dei suoi sguardi, molto cinematografica, non esprimeva un rimirarsi ma la ricerca in se stessa di qualcos’altro, al momento impossibile a vedersi; il contrasto con la donna rossa di capelli che salutava (ruvidamente) il marito in procinto di andare a pesca era percepibile (mora e rossa) e al tempo stesso non del tutto esplicitato. Mentre quest’ultimo camminava verso la riva del fiume, i colori delle immagini illividivano; scoperto il corpo, il suono di origine sconosciuta cessava. Ma perché?

Nel seguito di questi due minuti, il signore con i baffetti e l’hobby della pesca informa lo sceriffo, che giunge subito sul posto con un vice e il medico. Il corpo liberato dal cellophan è quello della diciassettenne Laura Palmer, studentessa alla locale High School. Rivelato il volto di una giovinetta bionda dagli occhi azzurri, illuminato però da tutte le possibili variazioni cromatiche che corrono tra il pallido e il viola, l’aiuto sceriffo scoppia in lacrime. Nessuno esamina il cadavere, nessuno cerca nei dintorni. Lo sceriffo comunica la notizia ai genitori, che scoppiano in lacrime, e poi alla scuola di Laura, dove tutti, preside compreso, scoppiano in lacrime. Più di tutti i compagni piange Donna, l’amica del cuore di Laura, che, diversamente da lei, è scura di capelli, con gli occhi verdi. Nessuno fa domande, nessuno riflette: piangono tutti. Lo spettatore fa presto a capire che lo sfogo emotivo è un sintomo e che la morte di Laura non ne è l’origine, ma solo il fattore scatenante. Sotto, nella profondità dell’io dei personaggi, c’è una sorta di spazio occulto/proibito (il rimosso?) che si manifesta a tratti, attivato da agenti non precisamente definibili. Questo spazio dovrebbe costituire il frame di Twin peaks, ma risulta non-evidente allo spettatore, il quale riesce a cogliere del racconto soltanto le apparenze incongruenti e a-logiche di cui sopra .
TWIN PEAKS (SERIE TV wiki QUI)
La presenza di questo altro traspare in pochi attimi illuminanti. Ad esempio, ancora nell’episodio pilota, il momento in cui la madre di Laura, ancora ignara della morte della figlia, non vedendola scendere per fare colazione, va a chiamarla di persona: da un punto di vista ribassato, ai piedi delle scale, la vediamo salire fino al pianerottolo. Raggiunge la camera da letto di Laura, bussa alla porta, la apre, ovviamente non la trova, prosegue oltre e scompare dall’inquadratura (forse è andata a cercarla in bagno). Per un paio di secondi gli sceneggiatori lasciano la scena vuota, immobile, quasi una fotografia, non ci fosse la pala del ventilatore appesa al soffitto a proseguire il movimento della vicenda e a segnare lo scorrere del tempo. Lo spettatore osserva questa assenza in uno stato di perplessità: da una parte, non riesce a spiegarsela in termini logici; dall’altra, percepisce, nella durata di quella inquadratura, una realtà nascosta che sfugge all’evidenza dei fatti, che è lì, tra la cucina, le scale e la zona notte, in una casa qualsiasi di una famiglia qualsiasi (e quindi anche nella nostra? ).
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