lunedì 25 settembre 2017

SERA D'AGOSTO

di Mirella Morara

Si prende posto
ai tavoli stabiliti
dalla sorte.
Qualcuno si alza
e tenta altrove
poi torna
e chiede a che punto
si era rimasti.
Ma le parole
sono andate oltre
libere del loro gioco.
Che ci fai qui
mi chiedi allora
con lo sguardo
Non erano altre
Le tue mete.
E' vero, rispondo
con la mano
che afferra il bicchiere.
Ma è andata così,
e sorridiamo entrambi
a questa afosa
serata d'agosto

Fonte: https://www.flickr.com/photos/36609145@N02/25089891454




sabato 23 settembre 2017

Matematica e religiosità del tennis (di Andrea Pagani)

IN OCCASIONE DEL  COMPLEANNO DEL PAGANS ECCO IL RACCONTO SUL TENNIS LETTO DURANTE IL READING LETTERARIO A PALAZZO SERSANTI A IMOLA

dedicato a David Foster Wallace
Cosa c’è di più bello che una sana partita a tennis, senza complicazioni, alla luce spensierata di un sabato pomeriggio, dopo la scuola?
È il 13 maggio 1983.
Venerdì.
Ma non è un venerdì qualsiasi.
È il venerdì dell’allenamento prima del torneo di tennis.
Il torneo regionale Fit, under 17.
Nella mia città sono già campione nella categoria juniores e mi hanno convocato per domenica mattina a Bologna. Se supero i regionali vado a Roma, ai nazionali.
L’emozione fermenta sotto la pelle, come un bruciore che mi infonde uno stato di ebbrezza ed eccitata inquietudine.
L’allenamento di oggi è decisivo.
Il coach ha parlato chiaro, puntandomi dritto negli occhi.
Devo mettere a punto alcuni fondamentali, perfezionare certi colpi, seguire la pallina col corpo, concretizzare la chiusura dello scambio.
Ok, troviamo la concentrazione.
È uno splendido pomeriggio, bagnato dai colori turchesi d’un preludio di tramonto.
Nell’aria tersa c’è un carezzevole odore di primavera, di gelsomino e fiori in rigoglio, un intreccio di suoni disparati, il rombo del traffico, lo stridio di pneumatici sull’asfalto, il cigolio di un cancello, il fruscio del vento.
Colpisco la pallina con inusitata potenza, servizio, dritto, rovescio, scendo a rete, volèe di dritto, volèe di rovescio, chiudo il punto. E poi ancora. Serve & volley. Rovescio in slice. Rovescio in back. Dritto in top. Backspin, topspin. Movimento dello swing del dritto. Servizio, dritto, rovescio.
Ma quanto sono forte!
Momenti favolosi, gravidi di trasporto, sudati di un’estasi eccezionale, ricchi di un rapimento festoso, gonfi di un’euforia che non si potrà più ripetere.
Sento tutta la libertà della mia adolescenza.
Un impeto infiammato sulla pelle, che non tornerà mai più.
Ma è solo questo?
È solo questa l’invincibile dipendenza dal gioco del tennis?
O c’è qualcosa di più profondo?


Comincio, oggi, dopo tanti anni, a capirne il motivo.
Fin da piccolo, quando imparai a giocare a tennis verso la fine dell’infanzia, a Ferrara, su un rudimentale campetto di cemento nel cortile dietro casa (un fatiscente campetto condominiale, che era messo a disposizione gratuitamente per i residenti del quartiere, con le buche per terra e una consunta rete sbrindellata), credo di aver avvertito, inconsciamente, la magica seduzione di quel gioco.
Qualcosa che aveva a che fare non solo con l’agonismo, ma anche con l’intelligenza, la matematica, il cuore, lo spirito, la religiosità.
Per vincere a tennis non basta avere talento atletico e tonica fisicità. Occorre anche una strana propensione per la matematica intuitiva.
Richiede una mente geometrica, l’abilità di calcolare le angolazioni di battuta e di risposta.
Io non ero particolarmente robusto né alto né veloce (o almeno lo ero molto meno dei miei avversari) ma possedevo quella che, tecnicamente, si chiama visione di gioco.
Col mio fisichino smilzo, un petto da piccione, un torace concavo e i polsi sottili che ci potevo infilare i braccialetti delle ragazze, facevo correre per tutto il campo il mio avversario, perché leggevo il rettangolo di gioco come un terreno di scacchi, una funzione matematica, un luogo in cui tracciare diagonali, angoli acuti, traiettorie spigolose e improbabili.
Mi sentivo a mio agio in quel rettangolo di 23,77 x 8,23 metri, coi suoi angoli precisi e gli spigoli ben tagliati. Sentivo di dominarlo.

venerdì 22 settembre 2017

Riflessioni sulla scrittura

Quando iniziai a scrivere, avevo undic'anni. Scrivevo per me, non per gli altri, e in breve tempo dalla mia iniziazione alla scrittura, mi colse un pensiero.
Sentivo come scrivere, esattamente come il fine del teatro in Grecia, aveva una funzione catarsica su di me.
Da qui la riflessione: ogni forma d'arte scaturisce da un' emozione piccola o grande che scompensa l'equilibrio interno di chi la produce. Scrivere, Dipingere, Fare poesia e musica (le metto insieme non a caso): ognuna di queste nasce da un'artista che può esserlo per un'ora o una vita, di professione o di nascosto, di qualsiasi forma... Ma non è la qualità dell'arte prodotta a fare l'artista: non mi reputavo un'artista a undic'anni, e men che meno ora. Sorrido.
Una grande felicità, un forte dolore, un ricordo che riaffiora carico di sentimenti passati, una speranza o paura per il futuro, tutto tramortisce il nostro leggero equilibrio e scompensa l'energia che da qualche parte dovrà uscire.
La creazione: le emozioni sono a-spaziali e a-temporali, sono qui ed ora (qui dove? e ora quando?) hic et nunc dentro noi. E poi diventano suono inciso graficamente, armonia riproducibile in ogni istante, diventano parole fisiche, oscuri simbolini tutti allineati su fogli e file, disegni e colori, immagini che lo sguardo, la lettura e l'ascolto riproducono. Arte è dare spazio e tempo all'Emozione. Per un'ora, per una vita,un uomo o una donna decidono di essere i creatori di una parte di sé.
Dare vita ad un'emozione è arte, a prescindere che sia per sé stessi o per gli altri. Ancora più affascinante è il fatto che ad ogni lettura, ad ogni lettore, l'immagine è diversa, cambia il significato e la sensazione. Ed è forse anche per questo che a volte scriviamo solo per noi stessi.

Ultimamente seguo molto il nostro nuovo e freschissimo blog, pullulante di voci così diverse, ed ecco che mi ritornano alla mente le riflessioni che facevo quando ero ancora una bambina, stupendomi a leggere una poesia o un pensiero di uno di noi, realizzando che ciò che vedrò io molto probabilmente non era quello che voleva essere mostrato. Sorrido quindi, leggendo una seconda o terza volta, vedendo scorci nuovi, cercando di indagare il vero significato di quella Creazione.

E.T.- Eva Tondini

La cura di se e dell'altro

Fonte: Henry McCaliend (profilo Facebook QUI)
SABATO MATTINA
per tutti gli interessati alle problematiche della cura dei malati di alzheimer e quelle che riguardano i parenti di persone colpite da questa triste malattia, si svolgerà questo evento che davvero affronterà tutti i temi più importanti.
Siete tutti invitati se interessati al tema.



Sono nata a settembre (di Maria Mancino)

Maggie
Quando sono nata io
le mamme erano bambine nascondevano la bellezza e gli anni con fazzoletti legati dietro al collo

Quando sono nata io le altalene dondolavano legate agli alberi
come in tutte le stagioni

Quando sono nata io l'aria profumava di campi arati freschi
di panni stesi al vento
di pane sfornato all'alba

Quando sono nata io era settembre
sul ciglio delle strade tra i rovi pungenti c'era ancora qualche mora

Maggie

Sono nata qui

mercoledì 20 settembre 2017

Il viaggio

Il viaggio

Ho preso la mia barca e all’alba sono partita
Nessuno mi ha veduto 
la spiaggia era deserta
soltanto un marinaio dormiva sulla sabbia
Ho preso la mia barca e in mare sono andata
ho preso la valigia perché pesava troppo 
lì dentro c'era tutto
La mia camicia bianca con la scritta “falsità”
Il mio maglione a righe con su stampato ” devi”
I miei foulard a fiori 
serviti a mascherare tutti i miei pregiudizi
Ho messo anche la rabbia avvolta dentro ad un telo
Nel fondo vi ho incastrato tutte le colpe e i jeans
Infine vi ho infilato tutte le scarpe rotte
colpevoli di aver portato a spasso
per anni la paura
Un tonfo e la valigia nel mare è sprofondata
Adesso sono nuda
il sole mi accarezza
Leggera ora è la barca la culla la marea
che mi riporta a riva
Ho preso la mia barca e in mare sono andata
Ho preso la mia vita e a riva sono tornata

E' sveglio il marinaio

Maggie






domenica 17 settembre 2017

I poeti scrivono nella stagione della malinconia

I poeti stemperano le parole con i sogni
le sensazioni le impregnano di illusioni e
scrivono
Vagano nelle incertezze
si perdono nelle tormente
e nudi sotto la pioggia
scrivono
I poeti scrivono nella stagione della malinconia
muoiono come le foglie poi
si pitturano il volto di nostalgia
Annegano dentro ad un ricordo poi
riaffiorano nella follia
I poeti non ha colpe…scrivono
I poeti hanno sempre un alibi
La poesia
Maggie






venerdì 15 settembre 2017

E VIENE LA SERA

E ti trovi la sera con un bisogno di scrivere senza sapere bene però cosa scrivere.
Bisogno è la parola giusta. Una strana voglia di riempire lo spazio bianco nel foglio, anche con idiozie se necessario. L’impulso di aprire il computer e cominciare a pigiare i tasti e formare sillabe, parole, frasi, fino a formare un pensiero o una storia.
Forse è proprio questo che fa di noi degli Ippogrifi: la voglia di riempire un foglio bianco!
E forse è questo che differenzia uno scrittore da una persona che scrive.
Il foglio bianco diventa un amico, un confidente, un essere prima inanimato a cui le nostre parole danno vita e senso.
E scriviamo per noi stessi, per nutrire la nostra anima, perché una volta iniziato a scrivere  è difficile smettere.
Scrivere è una droga!
Io sono stata in astinenza per troppo tempo e ora la mia anima anela la sua dose!
Daniela Galassi  


Blady nelle mura d'acciaio

Era stata dalla parrucchiera, la signora Margot, e tutta impettita attraversava il parco tenendo stretto il guinzaglio del suo bulldog, che avrebbe voluto scorrazzare qua e là. «Piano, piano Renoir» diceva al suo cane guardandosi intorno e cercando di richiamare l’attenzione degli altri ospiti del parco.
Blady se ne stava come tutti i giorni in giro nel parco. Era un vagabondo, era un vagabondo felice, quella mattina saltellava da un posto all'altro e cantava la solita canzone con il solito ritornello: «Cri, cri... e cri».
Blady godeva di un forte rispetto nel suo mondo di grilli incantati! Le grille… no, anzi, i grilli femmina l'amavano e lui le conquistava tutte, addolcendo il suo frinire e facendosi fare la corte. Saltò dalla siepe alla panchina e poi su un oleandro; poi tentò di arrivare fino alla cima di un piccolo alberello in fiore, ma... aiuto! perse l'equilibrio e giù, si sentì catapultare in mezzo ad una giungla, impigliato tra tantissime liane, avvolto da un viscido olio profumato, e quando riaprì gli occhi...
(Perché li aveva chiusi? Un po’ era fifone il baldo grillo patron del parco!)
«Ma dove cribbio sono? Ma che piante sono questi orribili intrecci?» si chiese Blady mentre si dimenava per riuscire a liberarsi, poi un sussulto comincio a scuoterlo.
«Ommioddio, ma cos'è, il terremoto? Renoir, Renoir, ora che ci siamo un po’ riposati ci incamminiamo verso casa» disse Margot portandosi la mano alla testa per evitare che il vento scompigliasse la gonfia pettinatura. «Li voglio tutti cotonati» aveva detto alla ragazza in salone, quando era stato il momento di farsi la piega. «Come se tutto quel cespuglio in testa servisse a farla diventare più bella» aveva commentato la ragazza senza farsi sentire. La signora Margot ondeggiava continuando a guardarsi intorno, mentre piano si dirigeva verso il suo appartamento in via Luxemburg, a pochi passi dal parco.

giovedì 14 settembre 2017

Cinofilia applicata all'uomo (di Eva Tondini)

Fonte foto: Eva Tondini
Quando scegli un cane, tu lo scegli. Lui in realtà non ti vuole, di te non se ne fa nulla (non ancora...) e resterebbe non sempre felice, ma nella sua quotidianità. I cani adorano la quotidianità. Quindi quando scegli un cane, tu scegli lui ma lui non sceglie te. Resterebbe volentieri nella sua gabbia, oppure coi suoi fratelli e sua madre, ed invece tu lo porti via.
Per  i primi tempi non c'è ancora fiducia, così se il cane morde non dovrebbe stupire nessuno.
Si può fare lo stesso paragone con le persone: quando inizia un nuovo rapporto, amicale amoroso o qualsiasi voglia, non c'è ancora fiducia. Se uno fa un torto al secondo, non c'è questa grande delusione.

La storia insegna
Poi avviene la magia: la fiducia. Ed ecco che la tua scelta viene ricambiata, anche tu sei stato scelto dall'animale. Così due persone si fidano l'uno dell'altro.
E il cane smette di morderti. Se in futuro lo farà tuttavia, ci rimarrai malissimo. Molti dopo situazioni del genere, a volte attuatesi a causa dell'ignoranza della parte umana, decidono di sopprimere l'amico perchè aggressivo, mordace; decidono di rompere il rapporto perché la delusione è troppo grande, ed il dolore con lui... meglio rinunciare.
Se invece il sentimento del legame è forte, si va avanti. Ma (c'è sempre un ma) si instaurerà diffidenza: su dodici anni di vita media dell'animale, magari lui ti avrà morso una volta sola dopo cinque che era con te, e per gli altri sette sarà sempre un ottimo cane fedele e rispettoso. Tu, tuttavia, resterai sempre un po' sull'attenti, sul chi vive, per il resto della sua vita, per il resto del vostro rapporto, memore di avere al tuo fianco un cane o una persona "che morde".

Il perdono
Le prime volte al parco, le prime esperienze insieme, i primi errori intrinseci dell'altro a cui chiedi cambiamento. Il cane scappa. Un classicone. E tu che fai? Lo chiami, ovvero vieni, torna sui passi del tuo errore. Lui non ti risponde. Lo richiami, inizi ad essere arrabbiato. non torna. Lo chiami di nuovo e sai che questa volta se non tornerà la tua rabbia sarà irreversibile. E lui non torna. Allora lo insegui, e dopo lunghe fatiche fisiche lo punisci con violenza.
La situazione si  ripete. Altro giorno al parco, altre  nuove esperienze, sempre i soliti errori.
Chiamata numero uno, e non torna; inizia la rabbia. Chiamata numero due, non torna, sempre più nero. Chiamata numero tre e la pazienza si è ormai vaporizzata, sei cieco di furore, già pronto ad alzare le mani e corrergli dietro e... puff! Magia, lui torna. Che fare? Sfogarsi lo stesso? No. Il figliol prodigo  va premiato, per quanto tu vorresti sfogarti. Non importa quanto tardi torna il cane o la persona dal suo errore, ma se lo fa di sua sponte, il premio è d'obbligo per instaurare quel feedback positivo per cui indubbiamente ripeterà ancora l'atto, ma tornerà sempre prima, fino a che ci vorrà solo un richiamo, o ancor meglio non si allontanerà affatto.
Siamo tutti cani in questo. Ma l'ammissione volontaria del proprio fallo e il saper tornare anche quando l'altro è folle di rabbia, è un gesto di coraggio. E il coraggio si premia sempre col perdono.




martedì 5 settembre 2017

"Micol e altro" (di Michele Castellari)

Dominique Sanda
Nell'adolescenza ognuno ha diritto alle sue perversioni immaginifiche: la mia fu quella di desiderare di essere ferrarese. Perché solo così avrei potuto godere appieno della topografia sentimentale dei romanzi di Giorgio Bassani. Le genealogie familiari, indecise tra la rievocazione storica e il virtuosismo da portineria; le mura antiche come nervatura pedagogica di una città, che a un bolognese evocano solo il dolore di avere perduto la propria; il ritmo ciclabile di un'attitudine esistenziale, che di quel mezzo di locomozione ha la pazienza e la frenesia; le malizie e le disperazioni di un'inquietudine assorta a metà strada tra Ferrara e la luna, come in quella poesia di Borges.

Micol Finzi Contini, protagonista del romanzo più noto di Bassani, è stata il grande amore letterario dei miei sedici anni. E il paradigma morale di quella ragazza, leggiadra e volatile come una farfalla un attimo prima di scendere muta nel gorgo dei campi di concentramento, me lo sono portato dietro per sempre: il senso dell'attesa come indolenza e come presagio, come pulsione e come perpetua inettitudine a darle un compimento (Vittorio De Sica, nel film tratto da quel romanzo, seppe ambientare magnificamente il racconto negli irreali giardini di cristallo di una comunità ancora sospesa e dimentica dell'orrore che le si stava compiendo attorno. E indovinò anche l'interprete di Micol, restituita nelle fattezze ridenti e fuggitive di Dominique Sanda. Ma ne mancò totalmente la resa cinematografica: una ragazza misteriosa, sensuale, ineffabile, malamente tradotta nella banalità carnale di una maliarda precoce e capricciosa).
Il Gruppo 63, simpatica e sopravvalutata congerie di Franti del pensatoio critico italiano, a un certo punto cannoneggiò senza pietà la letteratura di Bassani, accusandola di essere una variante appena più licenziosa ed evoluta di quella di Liala. Scemenza dispettosa di cui si sono perse le tracce e che ebbe comunque la sua pronta nemesi, tanto che anche i franchi tiratori di quel pensatoio, come nella profezia di Barthes, furono ben presto richiamati all’ordine dal medesimo sistema di cui si illusero di essere iconoclasti. Umberto Eco si rifugiò nella narrazione furba e vagamente fraudolenta del Medioevo sessuofobo e inquisitorio. Angelo Guglielmi si ingegnò a lialeggiare su Raitre gli intrecci sanguinolenti o pettegoli dei telefoni gialli e dei chi-li-ha-visti, Edoardo Sanguineti...no, Edoardo Sanguineti rimase invece fedele a se stesso, continuando a scrivere brutte e spocchiose poesie algoritmiche, come trent’anni prima.

Giorgio Bassani, al culmine del suo epos cittadino, nel frattempo scriveva il suo romanzo più bello, L’airone, che è il meno ferrarese di tutti (anche le perversioni adolescenziali prima o poi si fanno una ragione della loro caducità). La giornata di un ricco avvocato che fa una battuta di caccia in compagnia di amici tra le paludi del delta del Po e intanto, stanco di tutto, medita il suicidio. Risoluzione che deciderà di portare a compimento non appena scorgerà nella vetrina di una bottega alcuni uccelli impagliati: volendo raggiungere al più presto la loro imperturbabilità composta, la loro disseccata pacificazione.
Potrei concordare col Gruppo 63 solo su un punto: che la letteratura di Giorgio Bassani presenta effettivamente una specie di acerba incompiutezza, di approssimazione torbida che ha sporadici tratti da romanticismo glamour un po’ d’antan. Una certa aristocrazia della sofferenza, chiamiamola così, che alla ragione veduta di un senno maturo può talora disturbare, o apparire eccessiva. Ma forse proprio per questo resta ancora una letteratura vivida, evocativa, capace di riempire miracolosamente gli spazi narrativi di un genere letterario forse già al tramonto (e spesso proprio il tramonto fisso e didascalico di una cartolina).
Come avrebbe chiosato lo stesso Bassani, che fu anche insospettato e grande poeta,
“Cosa mi ha indotto dunque durante la notte ad abbandonare lo spazio del suo grande corpo assente se non l’ansia d’essere anche io niente?“
Michele Castellari

Dominique Sanda


Tempi postmoderni. "Pier Vittorio Tondelli, Rimini" (di Marco Marangoni)

Per spiegare la ragione per la quale Rimini è, oggi, un romanzo da leggere, dovrei pormi prima una domanda: cosa rende un romanzo davvero ‘moderno’? La risposta, più o meno, credo sarebbe: la rappresentazione della complessità ‘globale’ con la quale quotidianamente ci confrontiamo ormai da decenni, complessità profonda, non schiacciata sul primo piano, non superficiale, sostanziata di memoria. In questa prospettiva, nell’oltre-Duemila, leggiamo i nostri ‘classici’: De Lillo, Wallace, Ford, Perec, Marìas, e così via.

Rimini, uscito nel 1983 per Bompiani, più volte ristampato, non fu collocato all’epoca in questo orizzonte, che pure cominciava a sorgere; romanzo ‘generazionale’, invece, ‘giovanilistico’, ‘disimpegnato’: erano questi gli attributi che una critica poco lungimirante gli aveva imposto, intesi quasi come dei marchi d’infamia. In altre parole, opera di ridotte aspirazioni in rapporto alla realtà nuova degli anni ‘80 (già ‘disorientata’) ma best seller di esagerate ambizioni in termini di mercato e di mainstream italiano, allora già ampiamente praticato (in versione iper, dal 1980, con Il nome della rosa di Eco). A 34 anni di distanza un critico giudizio di valore da parte del lettore volge in tutt’altra direzione ed è di carattere più marcatamente formale, svicolato dalla visione del mondo e dall’etica dell’autore. Sono molto evidenti infatti le fragilità di carattere strutturale e in certe scelte linguistiche. I diversi fili narrativi presentano passaggi poco verosimili, affrettati; alcuni personaggi risultano troppo stilizzati, meramente funzionali, rispetto al loro ruolo nel romanzo. Il linguaggio cerca un livello medio sfiorando spesso la banalità (<<“Voglio fare l’amore con te”” disse, stringendola. Beatrix sorrise. Lo desiderava. Lo avrebbe desiderato tante altre volte con lo stesso entusiasmo. Si sentiva amata e lo amava.>>), a volte sintetico, ‘giornalistico’, a volte puramente referenziale (di facile traducibilità per i mercati esteri?). Soprattutto, si avverte in molte pagine (non in tutte) la mancanza di uno shining degno di Altri libertini (1980) nel lessico connotato e nelle metafore, adeguato agli spazi iper- e post- della Riviera. Desidero metterlo subito in chiaro per non sembrare un ‘tifoso’: Rimini costituisce una sorta di torre di Babele incompiuta, un’occasione mancata. Una bella occasione, però, e una torre ben concepita, da un punto di vista architettonico. Se lo diciamo noi, i posteri, significa che la voce del romanzo ha superato i limiti degli ’80 (smentendo l’etichetta di comodo ‘generazionale’), e che ancora comunica e ci interroga sul tempo presente.

La trama di Rimini è costituita da sei fili narrativi sviluppati nello spazio del ‘divertimentificio’ degli anni ‘80. Il primo è ‘doppio’: a) le vicende del giovane giornalista ‘rampante’ nominato direttore dell’inserto ‘vacanziero’, redatto a Rimini, di un grande quotidiano di Milano; b) la morte in mare di un senatore sulla quale indaga il giornalista medesimo ( la sua grande occasione per fare carriera); poi ci sono la storia sentimentale e autodistruttiva di uno scrittore, quella di due giovani ‘cinematografari’ che in spiaggia (da un ombrellone all’altro!) chiedono ai bagnanti i contributi per realizzare un film, quella del sassofonista di night-club attratto da una vicina di casa (di residence, dovrei dire: siamo a Rimini), quella infine di Beatrix, una donna tedesca alla ricerca della sorella, fuggita in Italia e ritrovata, alla fine di un lungo viaggio, dentro il parco di Fiabilandia (sempre Rimini).

I sei percorsi si svolgono in apparente contemporaneità: solo al termine del libro si scopre che uno precede gli altri; essi comprendono inoltre dei flashback e si alternano all’interno del romanzo ad altre due parti a se stanti, Pensione Kelly e Hotel Kelly, storia esemplare (ma ‘nera’) di una famiglia romagnola in progress grazie al boom del turismo (una sorta di Malavoglia alla rovescia).

sabato 2 settembre 2017

In bilico

E forse meglio cadere che rimanere in bilico?
Mi aggrappo all'illusione
e non cado
Mi lego all' orizzonte marcio della sera
E forse meglio un orizzonte corrotto dai mie occhi
che una certezza marcia?
...corteggiata è la certezza da un immaginare che distorce anche
l'aria e
i colori
e la luna


La luna...

Lei se ne sta' da sola in bilico sul mio sguardo
Maggie


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