domenica 10 dicembre 2017

Storie di cane (di Eva Tondini)

Eva e Sasha
Oggi è il 14 luglio 2017.
Sasha, il mio primo cane, è nata circa cinque anni fa, il 6 luglio 2012, ed ha raggiunto la mia casa poco dopo, il 25 settembre dello stesso anno.
Ricordo ancora quel giorno, vivido nella mia mente e nella mia memoria.
Mnemosine fa il suo dovere quando si tratta di lasciar rivivere le emozioni.
Ero eccitatissima. Una settimana addietro l’avevo vista per la prima volta ed era stato subito amore. No, non era lei ad essersi innamorata di me, ma io di lei. Lei non fu subito il mio cane, ma posso dire con certezza che io fui subito il suo umano.
Ma nel momento stesso in cui la desiderai così tanto, compii due atti di Vergogna. Il primo, la portai via dalla sua mamma per mero egoismo, perchè mi sentivo sola e volevo una compagna di vita, qualcosa di cui prendermi cura: in una sorta di autoesaltazione, volevo che un’anima di questo mondo mi considerasse un dio.
Il mio fu egoismo.

Il secondo gesto di Vergogna, il giorno in cui la scelsi, fu pagare. L’anima del mio cane, il suo cuore che batte, il suo cervello che pensa, l’amore che mi avrebbe dato, la sua carne biologicamente viva e calda... pagai una vita 800 euro. Io ho comprato un’altra esistenza. Ho comprato il suo futuro, per averlo fuso al mio, sempre per egoismo.
Quando la presi in mano per la prima volta, era un grasso cucciolo brutto, grigio come un agnello, dal vello morbido e profumato di latte e sabbia. Piangeva. Lei non mi voleva, voleva la sua mamma, grosso cane di cinquanta chili, dallo sguardo gentile e rassegnato a vedersi strappare ad uno ad uno i propri figli.

Ma i cani si adattano in fretta.

Prima di Sasha di cani sapevo solo la teoria insegnatami dai trattati di Konrad Lorenz. Ho imparato in seguito quanto la teoria si discosti dalla pratica.
Portai a casa un cucciolo spaventato che subito mi individuò come fonte di sicurezza. Per i primi tre mesi nella mia casa lei non smise un giorno di ringhiare a mia madre, e a nascondersi al suo arrivo; poco tempo dopo iniziò a portarle i suoi giochi preferiti.

I cani si adattano in fretta.

Dopo qualche giorno che viveva con me iniziò ad interessarsi alle mie abitudini e spostamenti.

Per la prima volta mi seguì in bagno (abitudine ferrea negli anni seguenti, la privacy è inesistente con un animale in casa). Mi stavo iniziando a spogliare per fare una doccia. Il cucciolo, terrorizzato dal fatto di vedermi “togliere la pelliccia di dosso”, ovvero i vestiti, si scagliò giù dalle scale ruzzolando e guaendo come se avesse visto uno spettro. Con me dietro che la inseguivo, preoccupata, chiamandola, nuda. Una scena bellissima, si sentiva inseguita da un mostro mutaforma.
La povera bestiola non comprendeva come la mia pelle reale fosse sotto i vestiti, e non i vestiti.
Dunque, la prima volta che mi vide nuda impazzì di paura. Per fortuna finora mi è successo solo con il cane...
Qualche settimana fa tornai a casa stanca dalla lunga giornata con l’intenzione di mettermi qualche vestito comodo. Lasciai la mia camicia rosa sgargiante a maniche corte e scacchi appesa ad una delle sedie del tavolo da pranzo in sala.
Salutai il cucciolo devoto ed andai in camera per cambiarmi, ma era già un caldo torrido ed optai per un pantaloncino corto sportivo abbastanza arrogante, col pensiero di rimettermi addosso la camicia aperta lasciata di sotto.
Mentre compivo queste azioni sentii provenire dal piano di sotto dei rumori forti come di legni che sbattevano. Scesi preoccupata, cercai la camicia per coprirmi ma non la trovai.

Girai per casa cercando la fonte del rumore, niente. Tornai in sala.

Sul divano, come se nulla fosse, c’era Sasha acchiocciolata. Metà di lei non si vedeva, il muso coperto. Solo il naso, incastrato, sporgeva da una delle maniche della mia camicia, la testa oscurata dal resto del capo di vestiario.
L’animale ingenuo, giocando, si era incastrato nella manica e spaventato aveva sbattuto il testone contro porte e muri, ma avendo riconosciuto il divano vi era salito sentendomi arrivare, e con nonchalance faceva finta di niente. Mi sentii in dovere di testimoniare l’accaduto con una serie bellissima di foto che mi sarebbe piaciuto allegare alla storia. Il mio cane è epico.

Sasha era ancora piccola, ed io anche. In quel pomeriggio stavo preparando cinque chili di pasta per una cena sportiva. Chili e chili di cibo e di carne profumavano l’atrio della casa. La pelosetta, golosamente curiosa, entrò in cucina e si mise ad osservarmi. Affettavo a metà delle salsicce crude, e poi le spezzettavo in padella.
La bestiola si avvicinò, sapendo benissimo che non le era permesso... e tac! Saltò e prese dal tagliere mezza salsiccia. Mi girai, la guardai sorpresa, si immobilizzò. Le cadde di bocca la carne quando realizzò di esser stata scoperta a rubare.
Scappò dalla rabbia che immaginava potesse prendermi. Tuttavia, resasi conto dell’inutilità della sua fuga, tornò indietro e recuperò la salsiccia da terra, poi riprese a scappare. In tutto questo non avevo mosso un muscolo nè detto una parola.

Non so quanto crederci, non so quanto ci credo o ci possa mai credere, ma non è inusuale sentir dire che i cani sentano l’Oltre. Che possano avere uno sguardo in più su quello che è o potrebbe essere un mondo di energie inpercepibili ai nostri cinque sensi. Indubbiamente hanno una sensibilità molto superiore alla nostra, sensi estremamente più sviluppati e connessioni all’ambiente che noi nemmeno immaginiamo lontanamente, persi in migliaia di anni d’evoluzione progressiva a favore dello sviluppo cerebrale e non fisico-sensoriale.
Avevo sedici anni circa, ero tornata a casa da una sera tranquilla con amici e, priva di sonno, mi ero messa a guardare in sala un film in seconda serata insieme al mio devoto cucciolone, che sonnecchiava tranquillo ai piedi del divano, rilassato.
Film a basso volume, una commediola che non stavo nemmeno seguendo.
Dal nulla, l’animale si alzò di scatto, iniziò a fissare un angolo bianco del salotto e ad emettere un ringhio basso e sommesso contro l’intonaco. Su quella parete, il niente. Cercai tracce di qualche insetto, ma niente; spensi la tv per capire se potesse essere quello, e il ringhio non cessò.
Sasha iniziò ad inseguire con lo sguardo qualcosa nell’aria del salotto. Provai a chiamarla per nome, e un lungo ululato straziò il silenzio della casa. Poi basta. Ritornò tutto nella norma. Non sapevo cosa pensare e non lo so nemmeno adesso.

Però so quante soddisfazioni e dolcezze mi ha dato da quella sera la scelta di farla dormire in camera con me ogni notte.
Mai una volta, un giorno, che non abbia aspettato il mio rientro per occupare la sua postazione notturna nella mia camera. Egoisticamente mi ha dato un discreta sicurezza emotiva tutte le sere.
Sasha è un nome slavo, tipico dei paesi dell’est, delle lingue russe e derivate. È il diminuitivo di Alexander e di Alexandra. Come nell’italiano, il diminuitivo Alex è assesuato.

Sasha si chiama così per un motivo.

Scappai di casa a quindici anni e nel mio vagare per l’Europa un giorno decisi di dormire in un campeggio aperto in una fresca sera primaverile ad Alexandropolis, città greca sul confine nord-est con la Turchia. Città tranquilla, di frontiera, con un grande faro.
La mattina mi svegliai anchilosata nel mio sacco a pelo, per degli strani rumori che mi circondavano.

Ero sovrastata da un enorme molossoide nero e marrone, dai bei disegni sul muso, che mi guardava gioioso e scodinzolante. Era una randagia. Era dolce e mi seguì per una settimana, senza che le avessi dato ad intendere che mi sarei presa cura di lei o le avrei saziato la fame. Mai lo fecì, ma lei continuò a seguirmi. Dopo tre giorni le diedi un nome, perchè ormai era una compagna fissa nel mio vagabondare per la città. Così la chiamai Alex, per il nome del luogo stesso in cui ci eravamo incontrate.
Quando decisi di proseguire il mio viaggio non potei portarla con me. Quando tornai a casa, volevo ritornare in quella città per portare via il cane che tanto fedelmente ed immotivatamente mi aveva accompagnata sette giorni. Mi ero affezionata a lei.

Non la trovai mai più.

Ma aveva tolto la polvere da un luogo speciale del mio cuore, un posto che aveva riempito abusivamente per poco e poi a lungo nei miei pensieri, lasciandolo vuoto.
Decisi di colmare quel vuoto, perchè era stata bellissima la breve sensazione che ne avevo avuto. Così presi il mio primo cane, e lo chiamai Alex ma in un’altra lingua, in onore di quel randagio abusivo dei miei sentimenti che mi aveva amata quando io stessa ero una randagia mente e corpo.
Due anni dopo averla presa, Sasha era nel pieno della maturità sessuale e stava attraversando l’ennesimo calore. Quella volta era folle d’amore e scappava costantemente buttandosi giù dal balcone o cercando di passare attraverso inferriate strettissime.
Dopo numerosi recuperi da parte dei gentili vicini, decisi finalmente di farle fare una gravidanza. La feci accoppiare con un coetaneo della sua razza, così da ottenere dei cuccioli che potessero trarre vantaggio dal sangue della grande famiglia degli Alaskan Malamute. Gestazione di 62 giorni, precisi precisi. Sasha, femmina leggermente sottomisura per la sua razza, sembrava una botte in procinto d’esplodere.
L’ecografia dal veterinario aveva rivelato la presenza di cinque cuccioli. Anticipo, in realtà furono otto. Grassi, sani ed enormi.
Quella mattina andai al liceo, lasciando il cane ansante a casa. Ormai era tempo che partorisse. Previdenti, mia madre ed io avevamo preparato una stanza al piano di sotto che dà su un piccolo giardino verso la strada, che sarebbe stata adibita per ospitare la neo mamma e la sua prole.
Rincasai pensando a queste cose.
Salii al piano di sopra, salutai e vidi il cane sul divano. Andai per salutarla e darle una mano (anzi due braccia) a scendere, ma non ne ebbi il tempo perchè mentre mi stavo avvicinando la creatura emise un lamento acuto ed espulse un sacchettino verde grigiastro e bagnato sul divano.

Oddio che schifo. Oddio che emozione, oddio che bello. Eccoli!

Subito dopo seguirono una serie incalzante di pensieri ed azioni: il trasporto del primogenito e della mamma, l’assistenza di sette ore al parto che feci, e tutto ciò che accadde nel mentre e in seguito.
Che avesse aspettato me fino all’ultimo spero che non sia stata solo una mia presunzione...
Sasha ha compiuto cinque anni. Era ieri che mi dormiva in braccio.
Non ho mai goduto del periodo in cui il mio cane era cucciolo, ed ora lo rimpiango profondamente.
Quando era piccola, la creatura era arrivata a casa mia traumatizzata dal trattamento orribile che subivano i cani dell’allevamento da cui la presi.
Per i primi tre mesi che visse nella mia casa, ogni volta che vedeva mia madre desiderava morderla e le ringhiava contro. Oppure si nascondeva terrorizzata, non riuscendo a reggerne la presenza.
Quando la portavo fuori scappava sempre. Non tornava mai al richiamo. Mordeva la mia mano. Odiava i bambini. Portarla al parco era sempre una scomessa di fiducia.

Un giorno come di consuetudine mi scappò. Le corsi dietro. Attraversò la strada stretta della Val di Zena vicino ad una curva da cui stava uscendo un tir.
Avevo quindici anni. Attraversai anch'io di corsa la strada mentre lei vi restò in mezzo, immobile, il rumore dei freni del camion enorme che stridevano nel tentativo di non investirmi.
La afferrai per la testa e mi lanciai con lei nel fosso pieno di rovi. Scampato pericolo.
La picchiai ferocemente, in un attacco d’ira. Piangeva. Strillava, si urinò addoso.

Ho sempre cercato di picchiarla il meno possibile, ma quel giorno non mi trattenni.

Tornai a casa con la morte nel cuore per aver malmenato una cosa così innocente, in un modo cosi violento. Volevo darla via. Restituirla all'allevamento o regalarla a qualcuno che avesse più cuore, più forza di me. Ero stanca di picchiare un cucciolo, ero stanca di sgridarla, di sentirmi in colpa, di vederla fuggire quando io volevo solo darle amore. Non mi rendevo conto che lei non mi aveva ancora scelta. Non mi voleva.

Così il mio cane mi insegnò cos’è l’amore.

Ogni giorno continua a darmi grandi lezioni.
Mi insegnò la perseveranza, la fiducia, il dare senza chiedere, un lezione durissima da imparare per me. Crebbe velocemente, e la odiai ogni giorno quando era cucciolo, proprio quando aveva più bisogno di me.
Sasha che nuota
L’anno seguente iniziai a coinvolgerla nelle mie passioni, iniziai a portarla in scuderia con me e le diedi la libertà di decidere se restare o continuare a scappare, e gradualmente scelse sempre di più di rimanere.
Ho appena terminato di scrivere questo racconto in una biblioteca pubblica vicino a casa mia, piena di studenti e lettori curiosi. Lei è qui al mio fianco che dorme serena e tranquilla, ed ho la certezza che ovunque la porterò non mi darà mai problemi.

Grandi lezioni d’amore da chi non ha mai detto una parola.

Eva Tondini

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