domenica 3 dicembre 2017

Tito (di Mirella Morara)

Il giorno della candelora arrivarono con le macchine lustrate .
Scesero uomini schiamazzanti vestiti a festa.Erano più di una ventina.
Tito si fermò a guardarli, stupito da quella insolita apparizione.
-Vieni, lo strattonò sua madre riprendendo la direzione della chiesa.
-Sei il solito curioso.
La messa in latino fu lunga, più lunga del solito.
Tito si girava spesso verso l'uscita per vedere se quegli sconosciuti fossero entrati.
Ma vide le solite facce del paese, facce spente che portavano negli occhi la paura e la povertà
a cui la guerra li aveva indotti.

-Chi erano? Che volevano?
Si chiedeva la gente uscita sul sagrato.
-Hanno chiesto della Paventa, disse il Rosso.
-Si sono avviati a piedi, verso i monti, vedrete andranno poco lontano, l'unica donna aveva persino i tacchi.
Il Rosso nell'indicare la direzione, preso dalla foga inciampò negli scarponi infangati.
Era uno dei pochi della sua età rimasti, troppo piccolo per essere arruolato e tra i partigiani, si diceva fosse stato liquidato per quella sua gamba poliomelitica che si trascinava dietro a fatica.
Il Rosso o lo scemo, lo chiamavano, e questo dice tutto.
Dalle cime scendeva una nebbia che ovattò il paese.
-Non troveranno la strada, ridacchiò il Rosso, tra un po' torneranno indietro, sembra vengano da Bologna.
Il vecchio allora perse la pazienza.
-Smettila di sparare cagate, le chiacchiere non servono, potevi seguirli o dirci subito qualcosa. Qui siamo rimasti in pochi e le donne e i bambini hanno sempre più fame.
-Lassù ci sono i nostri figli.Se i tedeschi sfondano...si mette male
-Vado io, disse il vecchio, tu sei un buono a nulla.
La vecchia gli si parò contro
-Gino non andare, faranno una gita...
-Ah, ah, una gita, questa è buona. Il Rosso era ormai piegato dalle risate.
-Demente! Disse il vecchio, avviatosi ormai verso la strada per l'altipiano.
Un silenzio irreale li avvolse.
La gente rientrò in fretta alle proprie case.
-Tito, lo cercò sua madre. Lui stava vagando tra quei parafanghi dorati, accarezzava la vernice delle portiere umide di nebbia ,sognava di rubarne una e sorpassare le camionette dei tedeschi quando passavano in perlustrazione.
-Tito! Tito, andiamo, i nonni ci aspettano.
-Erano in tanti; io e il nonno li abbiamo sentiti mentre prendevano il crinale, gli uomini parlavano, la donna rideva. I cani nell'aia parevano impazziti , poi quello che guidava il gruppo si è avviato verso la casa. La nonna che sino allora era rimasta fredda e dura allora si mise a piangere.
-Lui non voleva andare, ma quello che chiedeva di loro, il capobranco ha tirato fuori la pistola e gliela ha..
- Ma il babbo dov'è ora ? Chiese la mamma che era sbiancata
-Se lo sono presi, cercavano la strada per incontrare i "loro"
La nonna teneva in grembo dei coniglietti appena nati. la coniglia era morta nello sgravidare,
e lei li aveva salvati col latte di mucca. Nel dirlo, parve prendere coscienza solo allora della gravità dell'accaduto e nell'alzarsi lasciò cadere i coniglietti che rotolarono sulle lastre del pavimento.
-Mangiamo, nonno tornerà presto ma non ora e la polenta è ormai fredda, affrettò mia madre.
Tito nel frattempo raccolse i conigli, li rimise nella cesta e li riporto' nella stalla.
A tavola nessuno parlò, dalla finestra si vedeva salire la nebbia, mangiava le foglie di fico e addensava verso la costa, là dove pareva non esserci più nulla.
A casa però la mamma e i nonni parlavano spesso di loro, che da tempo avevano preso la via dei monti.Facevano attenzione a non farne riferimento in sua presenza, li sentiva discorrere sottovoce.
Ma chi erano loro, cosa ci facevano sopra gli altipiani e proprio ora che stava arrivando l'inverno...
"Quindi sopra la nostra casa a decine di chilometri, che dico, a pochi chilometri, c'è un mondo di cui io non so nulla" Pensava fra sè Tito
-Vado incontro al nonno.
Si alzò di scatto, lasciando nel piatto i fagioli che avevo spolpato dalla polenta.
-Tu non vai proprio da nessuna parte, sua madre lo respinse a sedere.
-E adesso finisci di mangiare, lo sai che è peccato lasciare del cibo nel piatto

Dante imboccò la mulattiera che s'innesta sul sentiero del crinale
Dietro sentiva il gruppo. Alcuni imprecavano, altri bestemmiavano.
-Dobbiamo fidarci del vecchio? disse qualcuno.
Poi saltò su il giovane che sino allora non aveva fiatato.
Aveva tra le mani la cartina che gli aveva passato quello che sembrava essere il capobranco. -Stiamo raggiungendo il crinale, la casa dovrebbe essere qui, vedi oltre l'altro versante. -Andiamo bene. I nostri non dovrebbero essere lontano da qui
Se qualcuno di loro mi vede, è fatta, pensava Dante e non sentiva nemmeno la fatica, nemmeno ora che iniziavano i primi fiotti di neve.
Ma percepiva il gruppo in disgregazione. Alcuni erano tornati indietro, anche della donna non sentiva più le risa sguaiate e questo gli dette forza.
-Io vi lascio qui, proferì Dante col suo accento toscano -Ormai siete a buon punto, avete già capito la strada.
Quello della cartina d'improvviso gli si avventò contro prendendolo per il bavero della giacchetta lisa.
-Vecchio stronzo, se pensi di tornartene a casa per parlare, non hai capito niente, tu non ci hai visti, capito!
Dante paralizzato non fiatò.
-Lascialo, s'intromise il capobranco.
Altri che fino allora avevano taciuto attaccarono.
-Con quella parlantina toscana, ci fregherà.
Il colpo partì deciso colpendo Dante a morte. Il suo sguardo rimase rivolto a valle dove la sua famiglia lo stava aspettando.
-Ci hanno visti in troppi, in paese, potevi risparmiarlo, dobbiamo accelerare per incontrare i nostri, mancheranno più di due ore all'appuntamento e per i miei gusti ci sono stati già troppi intoppi.
Raoul, reinserì la pistola nella fondina.
-Non mi piacciono i mangiapreti; voi dietro non lo sentivate, ma pregava in latino.
Poi gli sfilarono gli scarponi.
-Ha il piede piccolo il vecchio, esclamò qualcuno.
-Adesso basta. Ci avranno sentiti e anche se sta imbrunendo non possiamo più permetterci di seguire il sentiero, qui lo conoscono in troppi.
Mantenendo la direzione sud ovest, il gruppo si buttò nel groviglio della macchia.
A poche centinaia di metri era arrivato l'altro vecchio, poi lo sparo.
Lo trovò così, riverso sul sentiero, il suo amico Dante.
L'ultima volta che si erano visti, avevano parlato dei loro figli deportati.
Gino bestemmiava, Dante allora gli aveva messo una coroncina fra le mani.
-Prega, vedrai andrà meglio.Gino aveva sorriso.
-Questa non è nemmeno buona da mangiare!
Gli si inginocchiò sopra e si mise a piangere, disperato per tutto il dolore che portava dentro
-Vigliacchi, sono stati loro, quei sporchi repubblichini.
Gino era stanco, molto stanco, sarebbe tornato indietro dalla famiglia di Dante per dare l'allarme, ma pensò a quella casa in cui erano rimaste solo due donne e un ragazzino.
Con tutta la forza che gli rimaneva trascinò il corpo ancora caldo nella cavedagna del campo e lo coprì con delle frasche.
Poi guardò verso il crinale.
Impossibile che qualcuno non abbia sentito lo sparo.
La brigata era dislocata sull'altipiano. Serrati dalle truppe tedesche che avanzavano sui due versanti quello Toscano e quello Romagnolo, cercavano di resistere.
Ormai incuneati in quella casa da più di due mesi, passavano le giornate a preparare presunti piani d'attacco.Erano partiti in tanti, ma lì erano rimasti in pochi.
Qualcuno aveva abbandonato per passare all'altra brigata dislocata sul versante Bolognese.
Brento, il più vecchio ne aveva visti parecchi e questo andirivieni era per lui motivo di malumore.
-Non porterà niente di buono, era solito ripetere.
-La ferma, la ferma ci dovrebbe essere.
Gianfranco, il bolognese, scuoteva la testa di ricci corvini.
Per ammazzare il tempo sbucciava bastoni di nocciolo che aveva messo a seccare vicino al fuoco che prendeva quasi per metà l'intera stanza.Usava un coltello fatto a Scarperia, andava dicendo fiero, mentre lo arrotava con un pezzo di lastra recuperato dal tetto della porcilaia.
-Bischero, che t'arroti. Saltò su una sera il Livi, per quello che ti serve.
Il bel viso di Gianfranco s'infiammò.
-Questo ne ammazzerà più di quel mitra.Gli squarterò la gola a quei porci quando si presenteranno a quella porta!
Brento stava lustrando la sua rivoltella.
-E' questa che li sterminerà ad uno ad uno!
Poi nell'accarezzarla come fosse la coscia della sua Gemma, sorrise nel vuoto.
La neve scendeva lenta ma continua e senza fretta aveva riempito l'aia, sepolto la letamaia dove Bobo quella sera era di sentinella. Sotto il fico.
Il freddo gli stava paralizzando i piedi ma almeno lo teneva sveglio, lui che era solito addormentarsi
dove si appoggiava.
-Chi vuoi che muova, stava pensando, con questo tempo da lupi.E chiuse gli occhi, seguiva il rumore della neve, un senso di pace lo avvolse, pensò a casa. A quest'ora i suoi avrebbero mangiato e poi lui sarebbe uscito a fare un giro per il Corso incontro ai suoi nuovi amici. Avrebbero preso un punch per scaldarsi un pò.
Ma forse a Ferrara non faceva neve, se l'era vista così di rado la sua città imbiancata.
Ricordò l'ultimo fine d'anno passato davanti al Castello illuminato a parlare di socialismo e comunismo col suo amico, il figlio dell'Avvocato Rusconi, amico di cotanto padre pure avvocato.
Si erano sentiti forti, invulnerabili sfidando una sorte benevola, di cui non sapevano che farsene.
Lui sosteneva che il comunismo non aveva niente a che vedere col socialismo, del quale il suo amico ne riconosceva la paternità.Era l'ultima volta che si erano visti, seppe poi che il padre l'aveva spedito a Roma da certi parenti per il dottorato.
Si era sentito tradito.Lasciato solo a combattere contro i mulini a vento in mezzo a una borghesia la cui ipocrisia lo stava divorando mentre la povera gente moriva di fame.Chissà che ne aveva fatto il suo amico dei suoi pensieri illuministici
Questo pensava Bobo mentre con gli occhi chiusi ascoltava il rumore della neve.

Il sole intristiva sui monti quando Tito raccolse le ultime pecore per riportarle a casa.
Lo faceva dalla morte del nonno per aiutare la mamma e la nonna rimaste sole.
Ma il pensiero era sempre là sui monti.
Quella sera Dolfo si era spinto sin giù verso la valle per recarsi a casa di certi contadini che gli procuravano cibo, mancava il sale pane e il companatico stava finendo alla compagnia
Lo vide allora Tito, mentre Dolfo con il suo Sten avanzava verso la cavedagna.

Il ciuffo nero scendeva sul viso olivastro illuminato dal fazzoletto rosso che portava al collo.I pantaloni color caki scoprivano le gambe tornite. Avanzava di fretta come volesse lasciarsi alle spalle qualcosa.Tito fece per nascondersi, ma questi lo vide e gli virò contro.
-Non ti faccio nulla sciocco.Ma quanti anni hai?
-Sedici, menti Tito sentendosi infinitamente piccolo
-Ti facevo più piccolo, disse questi sfilandosi il tascapane dalla schiena e nel sedersi sul pendio dove stavano passando le ultime pecore, gli sorrise.
Tirò fuori una fiasca.
-Conosci una fontana qui vicino, sono tre ore che cammino e sto morendo di sete.
Tito ci pensò un attimo poi con fare deciso raccolse le pecore che si erano sparse.
-Il tempo di portarle a casa e ti accompagno.
E nel dire ciò indicò la casetta di sassi ai piedi del campo.
-Che non ci avete acqua in casa?
-La mamma.. meglio di no, tagliò corto Tito
Tito ritrovò dopo poco Dolfo dove l'aveva lasciato che stava riposando.Tornò con una fetta di formaggio.
-Tieni, avrai fame.
-Tu sei un partigiano vero?
-No, sono un tedesco che parla toscano! disse ridendo Dolfo mentre trangugiava il formaggio.
-Vieni, andiamo che poi la mamma mi aspetta
La fiasca appannò, tanto l'acqua della sorgente era fresca.
-Dove sei diretto? chiese Tito mentre se lo mangiava con gli occhi.
-Sei troppo curioso per i miei gusti.
-Tito abbassò lo sguardo e accarezzò lo Sten che il partigiano aveva appoggiato sull'erba.
-Chissà quanti.. ma poi zittì virando il capo oltre la montagna.
-Tanti, ma ancora troppo pochi, rispose inaspettatamente Dolfo.
-Dolfo colse un velo di tristezza negli occhi di Tito.
-Non sai che siamo in guerra?
-Il nonno.. e una lacrima scivolò sul visetto scarno.
-Dove? fece duro Dolfo.
-Su, verso il passo, erano in tanti.
-Ora devo andare, è ormai buio e mi aspetta tanta strada.

Alla sera Tito volle chiedere alla mamma se aveva mai visto un partigiano.
-Buoni quelli, fece lei con astio,- se ne vanno per le nostre case a chieder roba.
Dai Lazzarini l'altro giorno han fatto man bassa di prosciutti, e che loro non gliene hanno mai rifiutata di roba.
-Ma tu che ne sai dei partigiani, chi te ne ha parlato?
-A casa di Francesco i suoi ne parlano, dicono che sono in tanti e ci libereranno dai tedeschi.Dicono anche che bisogna avere degli ideali, che sono quelli che fanno progredire l'umanità, che sono poi la più grande ricchezza degli uomini.
-Tu stai zitto, capito? Non fiatare di queste cose, ne abbiamo già avute abbastanza a casa nostra di beghe, tra un po' ci sarà da segare l'erba per le mucche altro che partigiani e ascoltare le loro sciocchezze!
Tito non fiatò ma già germinava dentro di sè il pensiero di essere utile alla causa, non sapeva come nè quando; bastava avere pazienza e aspettare l'occasione giusta, come gli diceva spesso il nonno
E fu proprio a casa di Francesco che una sera, qualche settimana dopo, rincontrò il partigiano dell'acqua.Stavolta erano in due. L'altro era un biondino dal viso slavato. Se ne stava in silenzio mentre il moro parlava con Gino.Lo trovò smagrito, ma negli occhi aveva la stessa luce che gli aveva visto la prima volta.
-E voi ragazzi che state a dire qui, disse rivolgendosi a Francesco e Tito che lo seguivano in silenzio mentre parlava di quello che stava succedendo sui monti, ma anche in città, nelle fabbriche, alla gente che spariva.
Come faceva a sapere tutte quelle notizie?
-La lotta armata è arrivata ad un punto che ci servite tutti. Uniti dobbiamo essere. Tutti, tutti, tutti.
Fu allora che Gino s'intromise.
-Loro no, non si toccano, sono troppo giovani, sono le uniche perle rimaste, in mezzo a questo lerciume.
Il biondino che era rimasto sino a quel momento in silenzio, tirò allora fuori un manifesto e lo mise sul tavolo spoglio.
-Leggete ragazzi, quello che si va dicendo...
-Non sarai passato dall'altra sponda, è Gino; non è che i fascisti ti hanno fatto il lavaggio del cervello?
E un mattino che Francesco e Tito accompagnati dal vecchio lungo la mulattiera coi muli carichi di carbone, nel vedere passare alcuni partigiani, questi li ammonì di guardare a terra.
-Ricordate ragazzi, mai lo sguardo deve incontrare altro sguardo.
Tito fece finta di nulla e si tirò su i pantaloni fin quasi alle ascelle, lasciando scoperte le caviglie scarne.Stava crescendo in fretta
-Assomigli tutto al babbo, andava dicendo la mamma, e sopra le labbra turgide andava crescendo una leggera peluria nera.
Ma era il carattere di suo padre che mai come ora sentiva scorrere dentro di sè.
Sentiva forte la lontananza da un uomo che ricordava appena, del quale non poteva dimenticare l'ultimo abbraccio prima di partire.Anche a lui doveva qualcosa e allora alzò gli occhi col tutta la fierezza che possedeva in corpo e incontrò quelli del partigiano, l'ultimo della fila, e si sorrisero.

Bobo riaprì gli occhi e fu allora che li vide,erano tanti piccoli falò che si scorgevano sul crinale del monte, pensò ai contadini che salutavano il carnevale che se ne andava, il freddo gli aveva irrigidito
le mani e quando Brino alla mezzanotte gli dette il cambio anche lui si convinse che si trattava di festeggiamenti della povera gente sparsa su quelle aspre alture.
Solo al mattino, quando aveva smesso la bufera e si sentirono le prime raffiche verso la casa,
i ragazzi si accorsero dei fascisti e dei tedeschi attestati a mezzacosta.
Questi avanzavano verso il casolare in stato di accerchiamento.
In quel momento nella casa c'erano Bobo e Brino smontati dalla sentinella, Zac il vivandiere e un altro appena arrivato dalla città. Il grosso del gruppo si stava apprestando a raggiungere sul sentiero
che porta nel fondovalle.
Bobo capì subito che anche solo un attimo di esitazione poteva costare loro la vita.
Si gettarono dalla finestra che dà sulla porcilaia verso il torrente e così, nonostante l'acqua ghiacciata, si salvarono. Ma non l'ultimo arrivato che nell'intento di prendere la giacca fu colto dalla mitragliatrice
nemica .
Lo trovarono così, gli altri che rientrarono solo due giorni dopo lo scampato pericolo.Il corpo crivellato era rannicchiato in posizione fetale, teneva tra le mani la giacca di fustagno dalla cui tasca usciva il Manifesto, sul quale il nemico a mò di spregio aveva defecato.
Poi fu la volta del gruppo colto in marcia.
L'avanzata tedesca colpì il capobranco, il restante del gruppo fu fatto prigioniero.
Li vide cosi Tito in fila indiana, seminudi, coi piedi scalzi che affondavano nella neve, lasciando orme rosse, che mai, mai più avrebbe dimenticato.
Nascosto dietro il fico, li seguì con lo sguardo fin oltre la curva,l'ultimo, il tedesco che chiudeva la fila e seguiva un cavallo che trasportava un cadavere che perdeva sangue, parve girarsi indietro, come se percepisse che qualcuno li spiava.
Quando Tito non vide più nessuno, prese coraggio e immergendo le mani nude nelle orme rosse di sangue ne fece tante palle di neve, poi le depose una sopra l'altra sul muretto dietro casa, dove i suoi erano soliti seppellire gli animali di casa .
Poi entrò nella stalla, coi bastoni che il nonno seccava, fece una croce e ve la depose, ma le palle erano ormai sciolte, rimaneva solo il sangue misto a fango a chiazzare la neve.
E allora pianse, per suo nonno, per suo padre, per quei prigionieri feriti, per il fico che aveva assistito a quella tragedia, per lui che non era stato capace di fare altro che palle di neve rosse ormai sciolte.
A scuola la maestra nel controllo giornaliero della pulizia delle mani chiese spiegazioni a Tito, del perchè le sue unghie quel giorno fossero sporche di fango, fango rosso.
-Un coniglio, signora maestra; ho aiutato la nonna a scorticare un coniglio, disse Tito stringendo i denti mentre lei frustava sul dorso delle mani sporche.
-E di partigiani, dimmi, di partigiani ne hai visti ?
Chiedeva, col viso obeso incollerito ormai coperto da chiazze bluastre.
Tito allora prese coraggio, tutto il coraggio che non aveva mai avuto.
-Si, ne ho visti, signora maestra, mentre sfilavano valorosi sotto casa mia.Li ho visti mentre andavano verso la morte gridando viva la libertà. Ma erano vivi, tanto vivi, sa, tanto più di lei e di me.
Poi salendo sopra il banco gridò:
- Viva i partigiani! Viva la lotta armata!

Mirella Morara

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