mercoledì 18 ottobre 2017

"Georges Simenon"

Georges Simenon
Un'altra cosa che uno non dovrebbe mai perdersi nella vita è il tepore gelido dei romanzi di Georges Simenon. Maigret certamente, ma prima ancora tutti gli altri. "La camera azzurra", "La finestra di fronte", "L'uomo che guardava passare i treni", "Faubourg". Simenon è un romanziere molecolare, che procede per sottrazione ed essiccazione, e dunque è difficile definire la vastità di un vetrino al microscopio. Si può dire innanzitutto cosa Simenon non è. Non è uno scrittore sociale, perché gli interessano poco i processi storici e le procedure di classe. Non è un ingegnere delle trame sconvolgenti a svelamento finale, perché i suoi gialli hanno talora soluzioni stanche, deludenti, e spesso un colpevole annunciato che non mancherà le attese. Non è un mestierante furbo delle tessiture sanguinolente o dei compiacimenti sessuali, perché nelle sue fabulae tutto scorre asettico, essenziale, cechoviano. Ma nel suo genere è forse il più grande narratore del Novecento. La sua prosa dondola come un'abitudine e ticchetta come un meccanismo a orologeria che la dilanierà. I suoi personaggi, sempre uguali nei sobborghi parigini o a Tangeri, alla fermata dell'autobus o su una nave in rotta per New York, sono spettri dolenti che anelano alla carnalità, o viziosi concupiscenti che preparano con meticolosa lena la propria dissoluzione. I dialoghi hanno la frenesia asciutta di un'opera di Beckett, le descrizioni d'ambiente sono sinestesie permanenti: odori colorati, musiche che rovistano, arredi che suonano il motivo dell'infanzia perduta, o della prigione eterna della famiglia, della casa, della provincia. Ho provato a leggerlo a volte in francese, e l'effetto è identico, nonostante quella lingua sia a volte tronfia, dispersiva. Tutto anche lì cigola, allude, procede per stillicidio e sgocciolamento all'alluvione finale. Poi certo, c'è Maigret. Il rapporto con la moglie, in cui ironia e complicità riscattano la stanchezza della carne. Le sue scorribande, lui uomo senza patente, a cavallo di taxi, di tram, di pattuglie trainate da sovrintendenti premurosi, come un principe rinascimentale che mal si attaglia alle autogestioni motorizzate della modernità. Dove lo scioglimento dell'enigma avviene alle volte un po' così, in modo forzato e svogliato, perché tutto il bello della storia era già scorso altrove: la pipa, il cognac, l'agguato d'acqua della Senna, i viali alberati dietro ai quali si nasconde il bandito lesto della malinconia, canaglia inafferrabile anche per i principi rinascimentali con un certo talento.

Michele Castellari

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