martedì 5 settembre 2017

Tempi postmoderni. "Pier Vittorio Tondelli, Rimini" (di Marco Marangoni)

Per spiegare la ragione per la quale Rimini è, oggi, un romanzo da leggere, dovrei pormi prima una domanda: cosa rende un romanzo davvero ‘moderno’? La risposta, più o meno, credo sarebbe: la rappresentazione della complessità ‘globale’ con la quale quotidianamente ci confrontiamo ormai da decenni, complessità profonda, non schiacciata sul primo piano, non superficiale, sostanziata di memoria. In questa prospettiva, nell’oltre-Duemila, leggiamo i nostri ‘classici’: De Lillo, Wallace, Ford, Perec, Marìas, e così via.

Rimini, uscito nel 1983 per Bompiani, più volte ristampato, non fu collocato all’epoca in questo orizzonte, che pure cominciava a sorgere; romanzo ‘generazionale’, invece, ‘giovanilistico’, ‘disimpegnato’: erano questi gli attributi che una critica poco lungimirante gli aveva imposto, intesi quasi come dei marchi d’infamia. In altre parole, opera di ridotte aspirazioni in rapporto alla realtà nuova degli anni ‘80 (già ‘disorientata’) ma best seller di esagerate ambizioni in termini di mercato e di mainstream italiano, allora già ampiamente praticato (in versione iper, dal 1980, con Il nome della rosa di Eco). A 34 anni di distanza un critico giudizio di valore da parte del lettore volge in tutt’altra direzione ed è di carattere più marcatamente formale, svicolato dalla visione del mondo e dall’etica dell’autore. Sono molto evidenti infatti le fragilità di carattere strutturale e in certe scelte linguistiche. I diversi fili narrativi presentano passaggi poco verosimili, affrettati; alcuni personaggi risultano troppo stilizzati, meramente funzionali, rispetto al loro ruolo nel romanzo. Il linguaggio cerca un livello medio sfiorando spesso la banalità (<<“Voglio fare l’amore con te”” disse, stringendola. Beatrix sorrise. Lo desiderava. Lo avrebbe desiderato tante altre volte con lo stesso entusiasmo. Si sentiva amata e lo amava.>>), a volte sintetico, ‘giornalistico’, a volte puramente referenziale (di facile traducibilità per i mercati esteri?). Soprattutto, si avverte in molte pagine (non in tutte) la mancanza di uno shining degno di Altri libertini (1980) nel lessico connotato e nelle metafore, adeguato agli spazi iper- e post- della Riviera. Desidero metterlo subito in chiaro per non sembrare un ‘tifoso’: Rimini costituisce una sorta di torre di Babele incompiuta, un’occasione mancata. Una bella occasione, però, e una torre ben concepita, da un punto di vista architettonico. Se lo diciamo noi, i posteri, significa che la voce del romanzo ha superato i limiti degli ’80 (smentendo l’etichetta di comodo ‘generazionale’), e che ancora comunica e ci interroga sul tempo presente.

La trama di Rimini è costituita da sei fili narrativi sviluppati nello spazio del ‘divertimentificio’ degli anni ‘80. Il primo è ‘doppio’: a) le vicende del giovane giornalista ‘rampante’ nominato direttore dell’inserto ‘vacanziero’, redatto a Rimini, di un grande quotidiano di Milano; b) la morte in mare di un senatore sulla quale indaga il giornalista medesimo ( la sua grande occasione per fare carriera); poi ci sono la storia sentimentale e autodistruttiva di uno scrittore, quella di due giovani ‘cinematografari’ che in spiaggia (da un ombrellone all’altro!) chiedono ai bagnanti i contributi per realizzare un film, quella del sassofonista di night-club attratto da una vicina di casa (di residence, dovrei dire: siamo a Rimini), quella infine di Beatrix, una donna tedesca alla ricerca della sorella, fuggita in Italia e ritrovata, alla fine di un lungo viaggio, dentro il parco di Fiabilandia (sempre Rimini).

I sei percorsi si svolgono in apparente contemporaneità: solo al termine del libro si scopre che uno precede gli altri; essi comprendono inoltre dei flashback e si alternano all’interno del romanzo ad altre due parti a se stanti, Pensione Kelly e Hotel Kelly, storia esemplare (ma ‘nera’) di una famiglia romagnola in progress grazie al boom del turismo (una sorta di Malavoglia alla rovescia).
I sei percorsi si intrecciano, ma non sostanzialmente: alcuni personaggi fanno un ‘passaggio’ breve da quello in cui sono protagonisti in un altro nel quale risultano solo dei comprimari o delle comparse. Possiamo dire che i fili narrativi si incontrano sul piano della pura casualità (come richiede l’opera ‘complessa’) senza determinarsi e rispecchiarsi a vicenda (come richiederebbe invece la narrazione ’strategica’ ad ampio respiro da serial televisivo) e che richiamano modelli topici: il romanzo dell’arrampicatore sociale, il mistery, il racconto picaresco, la storia sentimentale tra sconosciuti, la quète. La scelta di questi modelli (e la conseguente animazione dei personaggi, un po’ meccanica) è spiegabile con la necessità di fissare per il lettore dei punti di riferimento all’interno di spazi e di tempi che non fanno parte della sua quotidianità, almeno per come la intende il comune buon senso, ma della sua extra-quotidianità, quella che l’autore, nel 1983, rappresenta come ‘vacanza’, ‘tempo libero’, ‘divertimento’.

Nella definizione di questi spazi e di questi tempi si intravede il progetto originale, la torre di Babele, il romanzo ‘totale’ che, stabilito quale sia la realtà, ne racconta ogni dimensione con ogni medium possibile, senza però rinunciare alla terza dimensione, all’effetto di profondità che si ottiene per mezzo del conflitto dei punti di vista, dell’ironia, della ‘decostruzione’ della realtà.

Cominciamo dalla rappresentazione del tempo. Da una parte, in Rimini, c’è il tempo ‘normale’, ‘storico’: gli orari di apertura e chiusura di Fiabilandia, le settimane che vanno da giugno a settembre, gli anni spesi a costruire il proprio benessere (pensione-hotel Kelly), quelli delle speculazioni edilizie in Italia, della politica che si muove nell’illegalità. Dall’altra c’è il tempo della vacanza e del divertimento che non viene ripartito in attività ma in performances svolte nelle scenografie della Riviera, rovescia la notte sul giorno, fa della voluptas un lavoro (<<La gente crede che sia un posto di villeggiatura. E’al contrario un luogo faticosissimo. Si vive di notte, tutta la notte.>>), mette la vita tra parentesi per sottoporla all’intrattenimento ad libitum e nel contempo effimero, alla lentezza, alla trance del soggetto.

Gli spazi, pure, conservano una doppia dimensione: è vero che ci sono le città di Milano, Riccione, Cervia, Firenze, Londra, ovviamente Rimini, esplicitamente nominate, esse però compongono una megalopoli diffusa su tutto il continente, tenuta insieme non dalle vie di comunicazione ma da un immaginario comune e, soprattutto, da un comune modo di concepirlo e di adottarlo in termini di ‘stile’. Teatro, locali fricchettoni o new wave, concorsi letterari, gallerie di videoarte, party, sono i luoghi dove la più elitaria ‘fauna d’arte’, come la chiama l’autore, si incontra, si infatua, degusta in termini estetici un gioco di ruolo che sta tra Kerouac e Fitzgerald. Sul versante del turismo di massa ci sono la spiaggia, l’hortus conclusus sotto l’ombrellone, i night, le discoteche, le sale-giochi, viale Ceccarini, la gelateria “Nuovo Fiore”, Fiabilandia, diversi dagli spazi precedenti, più grossolani, eppure anch’essi luoghi dedicati a performances e carnevali.

La prevalenza della finzione, nella realtà di Rimini progettata da Tondelli, la sua dimensione quasi di non-luogo, la sua disponibilità alla metamorfosi, è costata all’autore l’accusa di superficialità, come se questa fosse l’espressione di una visione sciocca della realtà e non il problema conoscitivo essenziale che gli anni presenti debbono ancora risolvere. La prevalenza del primo piano di questa riviera-studios (la mega-riviera), e sta qui la forza della scrittura di Tondelli, non può escludere il recupero di un reale ‘solido’ costituito non soltanto da ‘vera’ materia, ma anche dal lavoro per trasformarla, dalla cultura artigiana che fa da retroterra a queste architetture oniriche costruite per suscitare ed esaltare il desiderio (<<Davanti a loro a fior d’acqua, stava una imbarcazione grande quanto un cabinato da crociera. Era di legno. Aveva tre pennoni alti cinque-sei metri. Alcuni manichini di cartapesta riproducevano le fattezze dei pirati e dei bucanieri>>). In altre parole, se Rimini è un flipper, Tondelli ci fa avvertire la pesantezza delle biglie di acciaio, mostra la meccanica delle spatolette a pulsante, del segnapunti, ci fa sentire il ronzio elettrico dei campanelli che suonano quando le sagome vengono colpite dalla sfera-proiettile. Allo stesso modo, si illuminano nel romanzo quegli oggetti, anche i più quotidiani o grossolani, che rimandano all’immaginario di cui sopra senza spogliarsi della loro ‘durezza’: gli ippocampi di pietra ornamento delle fontane, le sporte di paglia delle signore in spiaggia, le granite in bottiglia. La poetica di Tondelli (altro che disimpegno) impiega ogni risorsa per sottrarre il discorso narrativo agli equivoci assolutismi e alle enfatizzazioni dell’ipermodernità. Se a Rimini sei un dark romantico a passeggio sul lungomare, l’autore ti inserisce, ironicamente, per mezzo dell’accumulazione caotica, in un lungo palcoscenico sul quale si esibiscono anche i <<Macho dai baffi frementi che procedevano avanti e indietro come tanti bambolotti big Jim in fase di collaudo oppure a una parata militare. Ragazze seminude che sembravano uscite da Cleopatra o La regina delle Amazzoni>>, le cinquantenni leopardate, i survivors in mimetica: niente di più che un mondo alla rovescia di maschere destinato ad estinguersi a partire, più o meno, dal 15 settembre.

Un’ultima considerazione. Dietro al ‘fenomeno’ Rimini ci sono lo studio, il lavoro, la presa di coscienza dell’autore. Molti dei momenti del romanzo, molti dei dettagli (un arredo, un tratto dell’abbigliamento, la scena di un lido che fa tendenza) si generano da/ si spiegano con una ‘esplorazione’ compiuta da Tondelli, in prima persona, attraverso un mondo assai prossimo, a parere di chi scrive, a quello nostro delle esperienze mediate, virtuali, ‘liquide’. In Un weekend postmoderno, grande zibaldone tondelliano uscito nel 1990 (ancora per Bompiani), si leggono, attraverso inchieste, rèportage di viaggio, recensioni, precedenti e posteriori all’uscita del romanzo, gli incontri e le riflessioni dell’autore nelle nuove terre dove cultura, creatività, gioco, il senso del crossover tra arti e media producono frutti bizzarri, eleganti, stravaganti (…), peraltro prontamente assunti dall’industria del tempo libero. Ogni capitolo di Un weekend postmoderno, anche quelli che vengono da testi successivi alla pubblicazione di Rimini, costituisce una possibile nota a piè pagina del romanzo (così Panzeri), una prospettiva aperta per spiegare che quanto viene raccontato è l’oggetto di una esperienza conoscitiva, spesso coinvolgente sul piano delle emozioni, non un videoclip, non uno storytelling governativo o aziendale, non un ipertesto diramato sui propri links.

Non si deve affermare ovviamente che la lettura di Un weekend postmoderno renda Rimini un romanzo dalla forma compiuta (non lo è, e lo ribadisco). Si può invece distinguere, attraverso lo zibaldone di Tondelli, il primo abbozzo di un canone sui generis attraverso il quale sottoporre a un’azione ermeneutica Rimini, la società dello spettacolo che esso prefigura, e accompagnare i suoi lettori fino al termine del secolo, nelle Riviere future: Bret Easton Ellis (con una certa diffidenza), Leavitt, Coccioli tra gli scrittori, Joe Jackson e i Clash tra i cantanti e i musicisti (scelgo fior da fiore), i Magazzini criminali per il teatro. Soprattutto, tutto l’immaginario che orbita intorno al ’77 italiano, privato del conflitto e dell’autonomia sociale, restituito nella sua dimensione ludica, divertente, scoronante. In Rimini questo canone, evocato direttamente o per allusione elude, se così si può dire, il gioco del citazionismo e istituisce un orizzonte che è forse l’invenzione migliore dell’autore, quella che apre il romanzo al tempo-dopo-di-esso.

Cosa sia davvero rimasto di questo orizzonte nel secondo decennio dei Duemila, non è discorso da affrontarsi in questa sede. Si deve però ammettere che esso costituisce per noi che leggiamo Rimini un background originale, un atlante di riferimenti che rendano la realtà più praticabile, più riconoscibile e meno ‘liquida’. E’anche grazie alla ricerca (forse anch’essa inconclusa) di questo ‘classicismo postmoderno’, infine, che il romanzo costituisce un punto di osservazione su un mutamento sociale e culturale del quale Tondelli ha, più che percezione, chiara consapevolezza. E’vero, il linguaggio può risultare ai nostri occhi inadeguato, quasi vintage: Rimini, ad esempio, è una <<Nashville nostrana>> (riferimento al film di Altman); il lungomare di sera è un <<sunset boulevard>> (ancora cinema), la zona di espansione edilizia di Cervia, un <<Monopoli>>, ma è proprio questo lessico ormai da ‘modernariato’ che ci trattiene al di qua della contemporaneità e ci costringe a guardarla in termini straniati (oltre che a studiare il cinema e i giochi di società del ‘900). Rimini non è un romanzo generazionale ma ‘di transito’ da una contemporaneità, quella di Tondelli (gli anni ’80) a un’altra, la nostra, sua stretta congiunta, seppure più triste, gonfia di aggressività e piena di solitudine.
Marco Marangoni

Pier Vittorio Tondelli



1 commento:

  1. Negli anni 80' ero adolescente. Ricordo tutto, odori, profumi, giacche con le spalle larghe e pantaloni con le "pence" a vita alta. le discoteche e le ragazze al mare da andare a intortare il fine settimana. Buona recensione. Complimenti.

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